A grandi falcate la Sicilia si avvia verso la Fase tre. Il 18 maggio scattano le prove generali per un ritorno alla normalità. Ma ora che il peggio è alle spalle, e riflettere a voce alta non è più peccato, si rendono opportune alcune valutazioni sui nostri “primi ufficiali”. Da un lato c’è chi, come l’assessore Ruggero Razza, ha capitalizzato al meglio il mese di vantaggio sul resto d’Italia, congegnando in maniera scrupolosa, anche troppo (il tasso di riempimento dei posti letto dedicati è dell’8%), la reazione alla pandemia. Dall’altro c’è chi, come Nello Musumeci, sembra non aver fatto abbastanza. Al di là delle rachitiche scuse dell’altro giorno ai chi è ancora in attesa della cassa integrazione in deroga, il governatore non è stato in grado di attivare una reazione tempestiva, e altrettanto accurata, alla vera emergenza che rischia di rovesciare i siciliani: quella economica. Che per un’altra settimana o giù di lì, in un’Isola a contagio zero, terrà a casa negozianti, parrucchieri, estetisti, ristoratori. E chissà per quanto gestori di stabilimenti balneari, operatori del turismo, albergatori.
Il confronto fra Musumeci e Razza, da sempre uniti nell’attività politica e di governo, fa emergere due modi diametralmente opposti di gestione della crisi. Uno, Razza, s’è posto sin dall’inizio in maniera pacata. Ha messo le mani avanti, senza fare terrorismo psicologico, cercando di prevenire gli effetti del Covid-19, che a parti invertite con la Lombardia, sarebbero stati impossibili da curare. Ha parlato e s’è visto poco l’assessore alla Salute. Sapeva di non avere a disposizione le strutture migliori del Paese, ma ha fatto leva sulla bravura dei sanitari, sulla disponibilità dei medici e sulle proprie capacità di mediazione. Una delle trovate più intelligenti è il forcing su Ismett, affinché – grazie ai buoni uffici dell’Università di Pittsburgh – si concludessero alcuni affari con la Cina per la fornitura dei dispositivi di protezione, ma anche monitor e ventilatori, costati fior di quattrini. Da qui l’orgoglio di poter dire che “la sanità è tornata al centro degli investimenti della Regione”.
Ma anche l’organizzazione dei Covid Hospital – con l’eccezione di Siracusa, unico focolaio di performance inefficienti – ha dato i suoi frutti: grazie alla convenzione con strutture private (in primis l’Ismett di Palermo e il San Marco di Catania), Razza è riuscito a mettere a punto una rete ospedaliera capace di contenere le previsioni peggiori. I posti in terapia intensiva sono stati incrementati di 172 unità rispetto ai 369 dell’iniziale dotazione, di cui 309 dedicati ai pazienti Covid (e riempiti in minima parte). Oggi le persone in rianimazione sono poco più di una manciata (16) e, in vista dell’estate, Razza ha potuto annunciare un drastico ridimensionamento dei posti letto per l’emergenza: saranno ridotti di due terzi rispetto ai 3.600 attuali. Resteranno a disposizione cinque Covid Hospital, quasi tutti “dedicati”: come quello di Partinico, che si è adeguato dopo le difficoltà di iniziali, il Cervello e l’ex Imi (istituto per la maternità e l’infanzia) di Palermo, che l’assessore ha rimesso in piedi dodici anni dopo la chiusura e ha dotato di 60 postazioni pronte all’occorrenza. Sperando che non serviranno.
La sanità siciliana, capace di accogliere e curare persone del Nord Italia, dando un taglio ai luoghi comuni più scafati, ha reagito in maniera quasi chirurgica, al netto della “fortuna” di esserci trovati distanti dall’epicentro del contagio. Ma non è finita finché non è finita. E la Sicilia sa benissimo di avere di fronte mesi complicati. Al di là dell’aspetto medico, ormai rodato, servirebbe una Regione rapida e brillante, una politica oleata ed efficiente, una burocrazia umile e coscienziosa, per gestire le difficoltà di un popolo che, in quanto a denari, non è mai scoppiato di salute. Purtroppo non è così. Perché in questa fase svetta l’andamento ciondolante, quasi anchilosato, del colonnello Nello. Musumeci non è ancora riuscito ad allestire una reazione degna di nota. Si è dedicato alle comparse televisive e radiofoniche, dove ha gettato via mascherine e urlato la propria indignazione, provando a competere col guardiano dello Stretto, Cateno De Luca, salvo poi indossare i panni rassicuranti del padre (e nonno) di famiglia, ai quali è più avvezzo. Ma non è riuscito a sfruttare quel mese di vantaggio, e adesso insegue l’emergenza senza troppi spiragli per farcela.
Il presidente della Regione, abituato a governare nell’emergenza, ma sprovvisto di anticorpi di fronte all’incedere di una pandemia, ha dato la sensazione di non riuscire a calibrare le numerose apparizioni in tv e quelle in aula (l’unica volta, con Sammartino all’Ars, è finita male); il polso decisionista dell’inizio e il moderato ottimismo di adesso; le polemiche col governo nazionale e la voglia di farselo amico. Ha chiesto una mano a Conte e la De Micheli, e protestato assieme ai governatori di centrodestra; ha chiuso i supermercati di domenica e spinto per far ripartire le attività produttive; ha implorato l’intervento deciso dello Stato, e preteso di controllare l’esercito. In un modo o nell’altro, fin qui, ha avuto ragione: perché la Sicilia, sotto il profilo sanitario, è salva. Resta da capire, però, quali connotati assumerà la ricostruzione. Le basi scricchiolano.
Ciò che manca alla Sicilia, fin qui, sono le contromisure. I provvedimenti veri. Quelli un governo all’altezza avrebbe dovuto pretendere da sé stesso prima che da Roma. Tra i pochi impegni assunti, alcuni si sono rivelati un buco nell’acqua. Musumeci ha promesso cento milioni di aiuti ai comuni per l’assistenza alimentare, pur sapendo che le somme sarebbero state difficilmente spendibili: i sindaci ancora oggi non hanno erogato un euro. Musumeci avrebbe dovuto gestire, assieme ai suoi uffici, le pratiche dalla Cassa integrazione in deroga: ma gli uffici si sono ingolfati, un dirigente generale s’è dimesso e i lavoratori, a casa da due mesi, non hanno visto un centesimo. Musumeci, inoltre, avrebbe dovuto organizzare una ripartenza per le famiglie e le imprese sferzate dall’epidemia, ma il castello costruito all’Ars – senza contare che sul tema era stata create pure una task force – s’è rivelato di carta come la Finanziaria, che poggia su somme incerte, vincolate per buona parte alle decisioni romane. Una manovra, per lo più, farcita di prestiti agevolati (solo in parte a fondo perduto) e convenzioni con le banche, ma incapace di offrire ai siciliani una botola per respirare.
La vera crisi comincia oggi, ma palazzo d’Orleans – impantanato nel guado della sua incertezza (dal rimpasto, alle nomine dei dirigenti, allo snellimento della burocrazia) – non riesce a offrire un briciolo di fiducia e uno squarcio di sereno a cinque milioni di persone sempre più rassegnate, che vedono la Regione come la zattera di Gericault. Alla quale è inutile, persino, provare ad aggrapparsi. Anche stavolta è meglio lanciarsi in mare aperto con le proprie forze e tentare di sopravvivere.