Non solo – fra meno di un mese – sarà riuscito nell’impresa di riconsegnare Palermo nelle mani della destra. Seppur divisissima. Ma la parabola di Leoluca Orlando sinnaco, ha fatto segnare in questi giorni un finale grottesco quanto inatteso. Il primo cittadino, quello della “primavera di Palermo”, della cultura della legalità, degli attacchi sfrontati a Sciascia (per averlo inserito fra i professionisti dell’antimafia) e a Falcone, ecco quell’Orlando lì, un po’ pasticcione, ha contribuito a riempire di vuoto le parole e ha riavvicinato i palermitani a un personaggio che pareva dimenticato, quasi disperso nei radar della politica: Totò Cuffaro. L’accoglienza del multisala Politeama per l’ex governatore, e attuale segretario della Dc, pur non avendo – apparentemente – alcun legame con la fine di Orlando, rappresenta il lascito del primo cittadino. La sua debacle più intima.
Dell’antimafia chiodata e parolaia di Orlando e dai trentasette anni in trincea per affermare la sua visione, non è rimasto più nulla. Tutto inghiottito dalla mala amministrazione e da una serie di vicende che hanno rivelato la permeabilità delle istituzioni ai fenomeni criminali. Nonostante la guardiania di Orlando Cascio (lo scandalo edilizia al Comune di Palermo lo testimonia). Di quell’antimafia, semmai, è rimasta solo la vacua sperimentazione del ricordo. Della memoria offuscata dalla celebrazione. E l’iscrizione al partito dei “professionisti” – ancora assai opulento – che turbava i sogni di Leonardo Sciascia: “La democrazia non è impotente a combattere la mafia – scriveva il maestro di Racalmuto, il 10 gennaio ‘87, sul Corriere della Sera -. Ha anzi tra le mani lo strumento che la tirannia non ha: il diritto, la legge uguale per tutti, la bilancia della giustizia. Se al simbolo della bilancia si sostituisse quello delle manette, come alcuni fanatici dell’antimafia in cuor loro desiderano, saremmo perduti irrimediabilmente”. Parole intolleranti per un integralista come Orlando. Che collocò idealmente Sciascia ai margini della società civile. Perché “chi è contro di me fa il gioco della mafia”.
Quella battaglia, a distanza di oltre 30 anni, ha esaurito la propria spinta. S’è rivelata un flop. E non solo per la teoria bigotta che “il sospetto è l’anticamera della verità”. Ma nella sua accezione più ampia. Se è vero come è vero che un uomo come Totò Cuffaro, che ha pagato con dignità le proprie colpe, ed è stato riammesso nella società civile dopo un lungo periodo di riabilitazione, non solo ha avuto la forza di rifondare un partito. Ma di prendersi un’ovazione alla prima uscita pubblica. E di accaparrarsi, in surplace, un posto in prima fila per la prossima competizione elettorale (al fianco dell’ex rettore Lagalla, che ne rivendica gelosamente un’amicizia più che ventennale).
Sarà stato un colpo al cuore per Orlando, che voleva ridurre a brandelli chiunque avesse avuto a che fare con personaggi di mafia, o legati alla mafia. Che si era messo di traverso per ostacolare il potere dei Lima e dei Ciancimino, e aveva utilizzato il pubblico ludibrio (anche) per vivere di luce riflessa. Era talmente “vittima” della sua missione, da mettere in discussione l’operato del giudice Falcone, durante una celebre puntata di Samarcanda, la trasmissione di Santoro: quando l’accusò di tenere “le prove nei cassetti”. A distanza di anni s’è parzialmente ravveduto: “Direi le stesse cose, ma con un tono diverso. Ribadirei oggi, come allora, quelle affermazioni sulle ‘prove nei cassetti’ riguardo ai rapporti tra mafia e politica, la mia era una denuncia politica, non giudiziaria”.
Lo scapigliato studente dell’Università di Heidelberg, figlio prediletto della borghesia palermitana, cultore dell’arte e dell’antimafia, sindaco eterno, abbandona lentamente la scena in favore di Totò Vasa Vasa. Quello dei cannoli all’Ars dopo la condanna per favoreggiamento (Cuffaro ha sempre parlato di una distorsione della realtà). Orlando non lascia eredi politici, come dimostra lo sconquasso del centrosinistra per contendersi la sua poltrona; ma non sembra più avere nemmeno eredi morali. L’immagine di quel teatro pieno che osanna un uomo redento, che stride con la biblioteca di Casa Professa, vuota per l’ultimo saluto del professore, ne è la prova più accecante. Dopo di me, il diluvio.