Sabato andrò in piazza e sarà un’esperienza nuova e inconsueta anche per la mia età.

Quando avevo quella giusta, le piazze erano di coloro che contestavano la Democrazia cristiana, e definivano i suoi aderenti servi dell’imperialismo. Sventolavano la colomba di Picasso e ritenevano l’Unione Sovietica e i Paesi del socialismo reale luoghi di libertà, di giustizia e di progresso.

Erano anche in buona fede e impiegarono parecchio per ammettere di sentirsi più protetti sotto l’ombrello della NATO piuttosto che sotto quello del Patto di Varsavia.

In modo paradossale a quel tempo gli eredi dei veri costruttori di pace, di coloro che avevano voluto la nascita dell’Europa per eliminare le ragioni dei ricorrenti conflitti, dei democristiani Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schuman, venivano considerati guerrafondai. Tutto questo appartiene ad una storia lontana.

Ci troviamo oggi in un’epoca del tutto diversa. Richiamare quel tempo serve solo a segnalare come dietro lo schermo di principi elevati, di grandi valori, possano nascondersi enormi equivoci.

Andrò in piazza, dove converranno persone con posizioni diverse e anche contraddittorie, per aggiungere la mia voce a quella di coloro che vogliono un’Europa davvero unita nella difesa della democrazia, forte nella tutela dei propri cittadini e nella preservazione della pace. E questo è già un motivo sufficiente per dar senso alla mia partecipazione.

Andrò in piazza con i dubbi e le incertezze sul modo con il quale questo obiettivo possa essere raggiunto e idealmente proseguirò anche lì il frequente colloquio con una mia amica che brandisce la pace e si indigna appena tento di dire che la pace va messa al sicuro da possibili aggressioni, che bisogna essere in condizione di dissuadere e, se necessario, respingere coloro che non la vogliono, che ricorrono alla violenza, all’aggressione, alla guerra.

Continuerò il colloquio consapevole di avere una posizione più debole della sua. Lei, e come lei tanti altri che rispetto ed ascolto con interesse, sono più forti di me. Sono animati da certezze incrollabili. Restano fermamente convinti che le armi non servono per preservare la pace, che la cultura, le conquiste sociali, il patrimonio millenario siano le vere risorse del nostro continente, che quelle conquiste non corrono alcun rischio o che comunque è sbagliato, profondamente sbagliato, immaginare di armarsi per restarne al riparo.

Rispetto quelle convinzioni, anche perché so bene che le lotte, le utopie, più del freddo realismo in alcuni versanti della storia hanno provocato cambiamenti radicali. Non disconosco il peso che la mobilitazione popolare ha avuto contro la guerra nel Vietnam. Giovarono allora le piazze negli Stati Uniti d’America e in Europa, e in quegli anni a Palermo anch’io, in dissenso con la posizione del mio partito, fui tra i promotori di un comitato contro quel conflitto.

Penso a quanta buona fede ci sia stata in coloro che, in Sicilia, a migliaia e migliaia scesero in piazza per cercare di fermare l’installazione dei missili a Comiso.

Non percepivano del tutto che quelle manifestazioni incrociavano obiettivamente l’interesse di quella parte d’Europa che negava la democrazia e non esitava ad utilizzare i propri eserciti per mantenere il controllo dei Paesi cosiddetti fratelli.

Sono stati smentiti dalla Storia e con loro i numerosi cattolici che parteciparono a quelle iniziative in nome di valori che opportunamente continuano a riproporre.

I missili a Comiso vennero installati in risposta a quelli in precedenza collocati dal Patto di Varsavia, che modificavano l’equilibrio tra i blocchi, quell’equilibrio che aveva concorso a garantire la pace. Quelli di Comiso per fortuna non furono mai utilizzati e la reazione dei Paesi della NATO svelò la fragilità del mondo comunista e agevolò il crollo del muro di Berlino.

Andrò in piazza, sabato, avendo chiaro che occorre continuare a distinguere in Ucraina tra aggressore e aggredito e che l’Europa debba rimanere a sostegno di quest’ultimo.

Sabato non incontrerò Conte, col quale, ove mai capitasse, avrei difficoltà a parlare, poiché la sua posizione è chiaramente strumentale e ambigua, sulla pace come su molte altre questioni.

Naturalmente non ci sarà Salvini, l’ultimo, improprio e strampalato dei pacifisti, in tutto e per tutto d’accordo col presidente degli Stati Uniti d’America, anche, come è ovvio, con la sua perentoria intimazione all’Europa di armarsi, di dotarsi di un proprio scudo, non essendo più lui – e c’è qualche evidente logica – disposto a sottrarre risorse al welfare del suo Paese per continuare a garantire la nostra sicurezza.

Sarei in difficoltà a ragionare con la Schlein, non avendo capito né io né altri quale sia il suo punto di vista. È per una cosa ed è per l’altra, è per la pace senza se e senza ma ed è anche per gli armamenti, a condizione che siano a disposizione di un esercito europeo piuttosto che dei singoli Paesi, una indicazione giusta e insieme utopica, che ripropone, a distanza di più di settant’anni da quando la Francia, dopo averla avanzata per prima, bocciò la nascita della Difesa Comune Europea.

Non ha saputo, la Schlein, compiere una scelta, come è indispensabile per un grande partito. Lo ha anzi diviso nella votazione sul riarmo, rompendo l’unità dei socialisti europei e concorrendo a balcanizzare tutte le forze politiche di maggioranza e di opposizione, a rendere a Strasburgo irrilevante l’Italia.

Per ottant’anni l’Europa ha vissuto in pace. Oggi la Storia pare abbia deciso di riprendere il cammino di sempre, che non è inesorabile se pure ciclico, quello segnato dalla ricorrente e assurda follia della guerra e della violenza.

Ci costringe, la Storia, a prendere atto che una lunga, fortunata epoca potrebbe essere finita, e non sappiamo ancora quale sarà quella nuova.

Sappiamo che viene annunciata da sconvolgimenti politici e commerciali imprevedibili, dal sibilo sempre più vicino delle bombe e dei missili, da quel suono che eravamo convinti non avremmo più sentito, almeno in questa parte del mondo.

Non sappiamo quale sarà l’esito di questo sconquasso. Non sappiamo quali possano essere le scelte giuste per garantire un futuro di pace a noi e all’intera umanità.

Ché questo ha di strano e di consueto la Storia, etimologicamente “so perché ho visto”: ogni scelta, se giusta o sbagliata, si capisce solo dopo.