Alcune imprese rimangono scolpite nel marmo. Ma è solo il tempo a definirne i contorni in modo chiaro. Così, magari tra un decennio o due, tutti si ricorderanno di quando Marco Cecchinato, un ragazzo palermitano di 26 anni, reduce da una discreta carriera nel mondo del tennis, conquistò gli onori della ribalta in uno dei tornei più famosi al mondo, il Roland Garros. Issandosi fino alle semifinali.
Il tennis è uno sport popolare ma non troppo. Molti lo definiscono d’élite. Eppure – è notizia freschissima – vanta in Italia un grosso seguito. Con oltre 370 mila tesserati, è secondo soltanto al calcio e viene prima di molte altre discipline: dal volley alla pallacanestro. Non sarà esattamente popolare, ma è entrato, col tempo, nel tessuto connettivo degli italiani. Spinti da una passione non sempre nostrana. Gli exploit altisonanti di campioni come Roger Federer e Rafa Nadal hanno agevolato la creazione di un legame solido, naturale, empatico. Lo “sport del diavolo” (una definizione del giornalista di Repubblica, Gianni Clerici) piace, sebbene per molti seguirlo in tv, con quelle maratone spesso estenuanti, si riveli persino noioso. E’ lì, al termine di battaglie durate ore, che nascono le leggende più belle. Che ispirano libri e racconti in bianco e nero.
Non è stato noioso, affatto, assistere alla cavalcata parigina di Marco Cecchinato. Che per la prima volta impugnò la racchetta al Tennis Club Palermo, con cui si aggiudicò il campionato Under 16, e da lì spiccò il volo verso altri lidi: dall’Alto Adige alla Tour Eiffel. Il proscenio del successo. Perché la Sicilia, diciamocelo, non è la patria del tennis. Anzi. Che Cecchinato sia palermitano c’entra poco con la sua affermazione da favola. Eppure bastò quel sussulto, e che sussulto, per rimettere sulle sue tracce una città intera. E un’isola che ha da poco ritrovato l’unico evento major del calendario tennistico: un torneo Wta, aperto alle professioniste donne, proprio a Palermo (nel maschile c’è un torneo di secondo livello, il Challenger di Caltanissetta. Non che in Italia, in generale, vada molto meglio).
La passione che scatena un’impresa solitaria – impossibile dimenticare le scalate di Marco Pantani, che davano tutto un altro senso alle estati degli italiani orfani del calcio – ha la capacità di incollare davanti alla tv addetti ai lavori, presunti esperti, agnostici consapevoli e casalinghe disperate. Così attorno a Cecchinato si sono concentrate energie insospettabili. Un coinvolgimento orizzontale che ha trasformato la sua cavalcata nell’impresa sportiva più simbolica del 2018. Marco è l’italiano ad essere arrivato più lontano al Roland Garros, uno dei quattro più importanti tornei al mondo, dopo Adriano Panatta che quel titolo lo vinse 42 anni prima, nel lontano 1976. Altre epoche, altro seguito, medesime emozioni.
Il percorso del tennista palermitano, che fino ad allora aveva vinto poco e che nel 2016 era rimasto invischiato in un pericoloso caso di scommesse (da cui uscì pulito ma con una classifica deficitaria), è un condensato di brividi e sudore. Reduce dal primo successo a livello open della carriera – a Budapest – l’allievo di Simone Vagnozzi (anch’egli ex tennista) si muove con eleganza e circospezione sui campi in terra rossa di Bois de Boulogne. E con una varietà di colpi che appartiene solo ai migliori – il rovescio a una mano e la smorzata sono i pezzi pregiati del repertorio – non dà punti di riferimento ai suoi avversari, che uno dopo l’altro capitolano.
Fino a quando, in un pomeriggio soleggiato di Parigi, sul campo dedicato a Suzanne Lenglen (la più alta rappresentante del tennis francese), Cecchinatò si ritrova di fronte a Novak Djokovic, il serbo ex n.1 del Mondo, impegnato nella nuova scalata al ranking dopo un importante infortunio. Lo doma, Cecchinato. Lo manda fuori giri, e contrasta con la classe, la personalità e una discreta faccia tosta il tentativo strenuo di Nole di rimanere a galla. Quello che solo i grandi campioni possiedono. A Djokovic non basta, perché Cecchinato è superiore e butta il cuore oltre l’ostacolo. Alla fine del match, vinto in quattro set, si sdraia per terra in lacrime. Fissa l’istantanea della sua vita. Si aggiudica un posto in un tabellone sempre più ristretto. In semifinale per l’esattezza, dove arriva stanco e si arrende all’austriaco Dominic Thiem. Un altro pomeriggio di passione – tutti in piedi sul divano – stavolta non coronato dal successo.
Un passo falso che non intacca di una virgola la meravigliosa impresa già consegnata agli archivi, in attesa di uno scalpellino che la modelli ad arte nel museo dello sport. Per Marco è il culmine di una stagione che lo vede salire al suo best ranking (a ottobre, infatti, entra fra i migliori 20 del pianeta, al n° 19). Al di là dei freddi numeri, restano le emozioni. Di chi l’ha visto giocare, e di chi ne ha letto sul web perché era troppo pigro per farlo. Di chi ne ha scritto e di chi l’ha tifato. Di chi conosce il tennis e di chi non sa nemmeno cosa sia un “doppio fallo”. Perché le grandi imprese come quelle di Cecchinato hanno la capacità di frantumare i confini, di ribadire le uguaglianze, di ristabilire un orgoglio nazional-popolare sempre più latitante. Sono bastati una racchetta, un campo in terra rossa, e i gesti pregevoli di un palermitano. Viva Cecchinato, tutti ce lo invidiano.