Distanziamento e ipocrisia In cella con il Coronavirus

Alcuni numeri non rendono giustizia all’emergenza, tanto meno alle misure di contenimento e contrasto del Coronavirus, enunciate a più riprese come diktat assoluto da parte dello Stato. Questi numeri sono rintracciabili nel fondo editoriale di Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera e si riferiscono a un fenomeno grave e sottostimato: quello delle carceri. Come si fa, in prigione, a mantenere la distanza interpersonale di un metro previsto delle restrizioni? Il popolo dei detenuti è composto di 61.235 unità, ma ci sarebbe posto soltanto per 50.853 persone. Che per lo più si vedono costrette a condividere spazi, cessi, letti a castello, epatiti (l’11% del totale ne è affetto), crisi di astinenza e disturbi psichiatrici (ne soffre il 40%). Ma anche – talvolta – l’assenza di docce e acqua calda.

Ieri a Bologna è stato registrato il primo decesso “con” Coronavirus e riguarda un 76enne arrestato nel 2018 per mafia. Soffriva di patologie associate. Ma fin qui sono a rischio anche agenti (due morti) e operatori sanitari (uno) che sono a contatto coi detenuti. I positivi al Covid, fra i carcerati, sono ventuno, con 257 persone in isolamento (ma in quegli spazi angusti: pare una barzelletta). Infine, col decreto svuotacarceri pubblicizzato da Salvini e dal pm Di Matteo, sono tornati a casa solo duecento detenuti, a causa dei numerosi limiti normativi e logistici (non ci sono abbastanza braccialetti elettronici). I giudici di sorveglianza, assumendosene la responsabilità, hanno allentato le misure per 4.138 detenuti a fine pena. La popolazione si è ridotta, così come la capienza (a 47.482 posti) per motivi di inagibilità. Ma è questo un Paese civile?

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