L’ultima moda è quella di dichiarare la fuga dai social, cioè annunciare un’assenza prossima ventura. Vip e presunti tali, approfittando delle vacanze estive, puntano alla disintossicazione da post e tweet. L’argomento sembrerebbe un trastullo da ombrellone e invece è molto serio. O almeno seria è la motivazione che dovrebbe spingerci tutti a non abusare dei social network.
Nonostante il disturbo non sia ancora ufficialmente riconosciuto, in America sorgono sempre nuovi centri per il trattamento delle dipendenze da social media, diffuse soprattutto tra i ragazzi. Secondo le analisi di Common-sense media, un’organizzazione che monitora l’uso dei social, il 50% dei ragazzi statunitensi si sente dipendente da smartphone e tablet. Il centro “Paradigm” in California sostiene, ad esempio, di avere un tasso di successo pari all’80% sui teenager che arrivano assuefatti e rincoglioniti da 6-7 ore al giorno di telefonino. Costo della disintossicazione, intorno ai 50 mila euro.
In rete fioccano i decaloghi su come uscire dal tunnel della dipendenza da Facebook e affini (si va dalla disinstallazione delle app alla consegna delle password a un amico che gestirà lui l’apertura e la chiusura dei profili). Ma il vero problema, soprattutto per il mondo dell’informazione, è togliere ai social la centralità nello smistamento e nella veicolazione delle notizie. Il luogo dove tutto accade non può più essere un’arena virtuale nella quale si aboliscono ruoli e competenze. La dipendenza dipende dal tipo di droga. Quella dei social è pericolosa perché astrae e isola: se si potesse fare un paragone con una vera sostanza stupefacente, il rimando sarebbe all’eroina (l’opposto del videogame che sarebbe invece la cocaina). E lo “smetto quando voglio” è, anche in questo caso, un annuncio di sconfitta.