C’è una recrudescenza di un dibattito a mio parere sterile sul problema di usare il femminile per ruoli e cariche generalmente indicati col maschile. E soprattutto c’è un equivoco di fondo che tende a confondere le acque, peraltro non cristalline di loro, nell’ambito del cosiddetto linguaggio sessista, identificando in qualche modo nella maschilizzazione del vocabolario quotidiano uno dei problemi connessi a questo strapotere logico-grammaticale dell’uomo. Il linguaggio sessista è altra cosa, è offesa, è oltraggio senza bisogno di ricorrere al Cencelli della divisione di genere. Chiamare “ministro” una donna e non “ministra” è (o può essere, a seconda delle intenzioni) una scelta che non vale nemmeno la pena di essere discussa: io ad esempio uso il maschile in certi casi (“ministro” è uno di questi) perché il ruolo, l’antico minister, e il rispetto a esso dovuto mi spingono a non imbarcarmi, istintivamente, in una distinzione di genere. Il ministro, il direttore, il presidente per me sono cariche che valgono al di sopra del nome. Sulla corrispondenza tra nomi e cose e sull’essenza di queste ultime già Umberto Eco e, in maniera indiretta molto prima di lui, William Shakespeare avevano aperto ampie vie di riflessione: stat rosa pristine nomine, nomina nuda tenemus non è solo la frase che chiude “Il nome della rosa”, ma un bel trampolino su cui esercitarsi prima di lanciarsi nel vuoto di questioni di principio figlie di tempi bui e oziosi.
Non c’è dubbio che esistono “forme di mascolinità egemoni” – anche se a me fa un po’ paura questo tipo di espressione usata come lancia in resta contro un nemico da abbattere – ma credo che le egemonie vadano combattute con il ragionamento, senza crociate soprattutto in questa èra di crociate facili e spesso dissennate (eufemismo). Additare una direttrice di orchestra di inadeguatezza perché non si offende se la chiamano direttore è come illudersi di svuotare con lo scolapasta il pozzo avvelenato dei social: un modo per lavarsi la coscienza incuranti del risultato.
È il ruolo che pesa. È il risultato che conta. È l’umanità che giudica. È il futuro che, fregandosene, si fa quattro risate.
Avere quattro donne che non saranno avvocati ma avvocatesse, non presidenti ma presidentesse, non ministri ma ministre, non direttori ma direttrici sarà magra consolazione se resteranno solo quattro, pagate meno dei loro pari grado maschi, e rincoglionite dietro alla battaglia per qualche sillaba. E soprattutto è indecente, al giorno d’oggi, dover stare attenti se ti scappa una frase in cui “donna” sta insieme a “cucina”, o “femmina” sta dalle parti di “casa”: occupiamoci di vivere al meglio, chi sta in cucina, cucina e sono cazzi suoi. E io di cucina ne posso parlare senza tema di fraintendimento (risolino).
The Economist ha pubblicato un interessante articolo, frutto di un’inchiesta lunga un anno, sugli adolescenti e sui cambiamenti imposti dai vari lockdown. Il risultato è sorprendente: “Per secoli l’adolescenza delle ragazze è stata definita in contrapposizione a quella dei ragazzi”, scrive il giornale. Oggi “l’adolescenza maschile sta diventando via via sempre più irrilevante per quella femminile: lo dimostra il fatto che le ragazze stanno cambiando, i ragazzi no”.
La sopravvivenza di un’idea, di una specie, di una cultura è una questione di priorità. Noi siamo, in questo preciso momento, in una pericolosa congiuntura di emergenze medica, sociale, politica.
Servono più donne per trovare soluzioni, più donne per pensare, più donne per sopravvivere.
L’importante è che non siano distratte da suffissi. Da timeline oziose. Da benaltrismi snervanti appesi alle virgole. Da like senza un domani. (tratto dal blog di Gery Palazzotto)