Gaffe, imbarazzi, lapsus freudiani, attacchi sferzanti: rispetto al debutto di ieri alla Camera, quello di un paio di giorni fa al Senato, per il premier Giuseppe Conte, è stato una passeggiata di salute. Non che, nell’emiciclo di Montecitorio, a Salvini e Di Maio sia andata molto meglio: al leader della Lega, Vittorio Sgarbi ha dato del “Bersani”, ribadendo la centralità di Berlusconi; il capo dei Cinque Stelle, invece, è stato definito da Giorgio Mulè, deputato e portavoce dei gruppi parlamentari di Forza Italia, come “il ministro del Lavoro altrui”. Perché, ormai è arcinoto, il curriculum vitae del Ministro del Lavoro è tutt’altro che un gran curriculum.
“Vi siete battezzati come governo del cambiamento – ha esordito Mulè nella sua arringa -. Il presidente Conte, dopo essere stato voluto dal “ministro del Lavoro altrui” si è levato a custode e garante del governo del cambiamento. Sulla sua testa non c’è una corona ma il cappello di Pinocchio”. Che Conte sia (o appaia) come un premier eterodiretto – una marionetta – è emerso anche dalle dichiarazioni di Graziano Delrio, ex Ministro delle Infrastrutture in quota dem: “Non venga a parlare in quest’aula di cose che non conosce, sia umile. Non faccia il pupazzo in mano ai partiti”. A proposito di cose che non si conoscono. Anche su questo punto, Giorgio Mulè, attentissimo osservatore, non si è lasciato sfuggire le chicche di alcune citazioni inappropriate contenute nelle dichiarazioni programmatiche del premier: “Nel suo discorso più che Dostoevskji ho sentito Cetto Laqualunque, un filosofo che probabilmente lei avrà incontrato in uno dei suoi viaggi in America”. Sferzante, molto.
La giornata di Conte e Di Maio alla Camera non era iniziata nel migliore dei modi. Il presidente del Consiglio, immerso in una marea di fogli, non riusciva a trovare gli appunti con cui attaccar bottone (e discorso). Di Maio: “Dai, comincia a parlare. Hai il microfono aperto, te li scelgo io gli appunti”. Conte si dimena, e parte. Non sarà più lo stesso. Il premier spiega di voler rivoluzionare la giustizia nel rispetto “dei principi costituzionali di presunzione di colpevolezza”. Manca un “non” grande quanto una casa e Gelmini, nel suo intervento, glielo fa notare.
Poi la solidarietà a Mattarella e al “congiunto”: “Mi dispiace per le minacce dei social rivolte al congiunto del Capo dello Stato”. Silenzio di due secondi che pare interminabile, “anche se adesso non ricordo”. E sono due le cose che non ricorda: il contenuto della minaccia e il nome del congiunto. Ci penserà poco dopo Delrio a rinfrescargli la memoria: “Piersanti, si chiama Piersanti” urla dai banchi del Pd. Quando non si sa, vale sempre la regola che “tacere è meglio”. Anche se non sapere, in questo caso, è roba assai grave.
Nonostante tutto, Conte e la sua squadra portano a casa la fiducia della Camera. Compreso il voto di Vittorio Sgarbi, in dissenso col suo partito. Come implica, d’altronde, la storia del personaggio: “Lei è un vicepremier di due vicepremier. Non è stato incaricato dal presidente della Repubblica, ma da Di Maio. E Salvini ha avuto l’incarico da Berlusconi. Salvini può essere detto un Bersani riuscito e ridurrà Di Maio a essere il prossimo Angelino Alfano” ha spiegato con dovizia di particolari il critico d’arte. “E poiché dove c’è disordine e ignoranza io prospero – ha concluso – voterò la fiducia per assistere al vostro declino”. Se fosse servito un biglietto per accedere a Montecitorio, questo intervento, da solo, ne avrebbe giustificato il prezzo.