Ci sono delle volte in cui ti viene voglia di mandare tutto affanculo. Vengo e mi spiego. Ho battuto il record di velocità in notifiche di atti giudiziari: in 20 minuti un’identificazione e un avviso di conclusione indagini, entrambi per querele di parte (un imprenditore in odor di mafia e un politico leghista) per diffamazione a mezzo stampa.
So benissimo che si tratta di inconvenienti del mestiere. Anche “medaglie”, in un certo senso. Tanto più che negli ultimi anni avrò collezionato una trentina di procedimenti: finora zero condanne e soltanto un bizzarro processo per rivelazione di atti coperti da segreto istruttorio. Mi difenderò anche stavolta. Con qualche amarezza e consapevolezza in più.
Un’amarezza è dovuta soprattutto al fatto che le querele sono sempre di più e sempre più spregiudicate. E adesso, con l’obbligo della mediazione, c’è la subdola tecnica dell’invio della “letterina” che ti offre un patto col tuo querelante. Un’ulteriore arma di ricatto e di pressione su carta intestata di prestigiosi studi legali: ne ho ricevuto un paio, negli ultimi tempi, per conto di un magistrato e di un docente universitario.
Ecco, questo è il punto. Con i ddl sulle querele temerarie fermi in Parlamento da lustri, chi fa il giornalista ha ben pochi strumenti (oltre a correttezza, deontologia e verità) per tutelarsi. Avendo un contratto art. 1 io sono un privilegiato: l’azienda mi copre le spese legali (la stessa cosa non accade per decine di ottimi colleghi freelance). Ma mi copre anche le spalle. Con la fiducia dell’editore, del direttore e del caporedattore. Eppure, ogni volta che arriva una nuova notifica, mi resta sempre il retrogusto di essere una rottura di coglioni anche per chi mi stima e mi vuole bene.
Un’altra fonte di amarezza è legata al senso che sta prendendo questo mestiere nella nostra terra. La Sicilia ha pagato un prezzo altissimo in termini di giornalisti ammazzati semplicemente perché facevano bene il loro mestiere. E la memoria resta un patrimonio da custodire con orgoglio. Ma adesso tutti noi (e i nostri organi di rappresentanza), oltre alle cerimonie per ricordare i morti, dovremmo occuparci un po’ di più anche di chi è vivo. E fa questo mestiere. Per i mafiosi, ancora forti e spocchiosi, sono i giornalisti essere una montagna di merda. Eppure, a mio modestissimo avviso, la vera emergenza oggi non sono né il recapito di teste di capretto imbustate al supermercato, né gli insulti di qualche delinquente-social. Chi ancora prova a fare questo lavoro sa benissimo che le vere minacce, per la serenità professionale e familiare, sono proprio quelle “eleganti” e ben scritte, in avvocatese, su carta bollata. Anniversari e attestati di solidarietà (odio questa parola!) sono riti a costo zero. Talvolta alibi per coprire la nostra pigrizia intellettuale. Le idee e i fatti sono più impegnativi. Vorrei che finalmente si aprisse un dibattito serio sull’argomento, ma forse sono un illuso.
Poi ci sono le consapevolezze. La prima è che non intendo mollare, nemmeno di un millimetro. Continuo, anche perché so fare solo questo. La seconda, più recente, è che non basta più difendersi. Ma bisogna pure attaccare: a ogni querela ingiustificata risponderò in sede civile. Se l’avessi fatto prima, nell’ultimo decennio avrei racimolato il tesoretto necessario ad anticipare il sogno della mia vecchiaia: una casetta ad Alicudi dove rifugiarmi per leggere e scrivere. Il mio “cash back” comincia adesso… Ma per fortuna a Catania c’è il mare. Puoi staccare la spina per qualche ora, dedicandoti solo a te stesso. Io lo sto facendo. E sto già molto meglio. (tratto da Facebook)
Mario Barresi è un giornalista del quotidiano ‘La Sicilia’ di Catania