Loro se stanno lì a svolazzare tra Camera e Senato, a pavoneggiarsi nei telegiornali e nei talk-show, a presidiare Palazzo Chigi e gli altri palazzi del potere, a governare e a litigare, ad affermare e a smentire, a dire tutto e il contrario di tutto; e noi qui a chiederci: che fare?
Loro stanno lì con i pennacchi e la sicumera di chi ha vinto le elezioni e perciò stesso crede di avere la licenza di sfidare l’Europa e anche il buon senso, di calpestare le regole e anche il galateo istituzionale, di ignorare i diritti e anche i rapporti internazionali, di accanirsi con i deboli e di sputtanare gli avversari; e noi qui a chiederci: quando finirà, se mai finirà?
Ammettiamolo. Il primo istinto sarebbe quello di starsene accucciati tra le quattro mura di casa, senza nemmeno curarsi del palchetto che i piccoli robespierre issano giorno dopo giorno nella piazza telematica di facebook per ghigliottinare chiunque osi manifestare un’idea contraria all’ultima smargiassata di Matteo Salvini o all’ultima scempiaggine di Gigino Di Maio, quello con la faccetta da bambino stagionato: lo stesso che, dopo avere chiesto in passato le dimissioni di quasi tutti i ministri, anche di quelli colpevoli di avere versato il latte sul divano, all’improvviso ha chiuso la mitraglietta delle sparate a raffica e ha detto no, che per l’indagato Salvini il giochino non vale, “perché il nostro codice etico non lo prevede”. Ecco, di fronte a cotanta spocchia la prima tentazione potrebbe essere, appunto, quella di appartarsi e di aspettare che il tempo faccia ciò che le opposizioni ancora non riescono a fare. Sarebbe una scelta impastata di ignavia e pigrizia; la stessa, si parva licet, che un agiato e sonnacchioso borghese, originario di Evergnicourt, villaggio della Champagne, fece ai tempi della rivoluzione francese, quella vera, che tagliava teste vere, e aveva la capacità di arruolare fanatici ed esaltati di ogni risma, non su facebook ma lì davanti al patibolo. Quel borghese si chiamava Célestin Guittard, abitava a Parigi, in place Saint-Suplice, ma non si preoccupava più di tanto dell’orrore che gli si appalesava ogni giorno nella vicinissima Place de la Concorde, trasformata da Robespierre nella piazza del terrore e della ghigliottina. Da diligente proprietario terriero, teneva un diario nel quale annotava con puntiglio maniacale se c’era un bel sole o se tirava un brutto vento. E sul quale prendeva anche nota dei fatti e dei misfatti della Rivoluzione. Contava, ovviamente, le teste cadute e le numerava con la meticolosità di un ragioniere. Ma senza scomporsi. Non batté ciglio nemmeno il 12 gennaio del 1793, giorno in cui gli decapitarono sotto gli occhi Luigi XVI, il suo re. Si svegliò dal torpore solo quando capì che il disastro economico provocato da giacobini e montagnardi, brissottini e termidoriani stava per travolgere le sue terre e la sua esistenza. Troppo tardi.
Si parva licet, si diceva. Perché il secondo istinto – di fronte all’arroganza twittarola di Salvini e Di Maio, i due enfant prodige della politica gialloverde – potrebbe essere anche quello di rendere comunque una testimonianza, di scrivere verità contro le fake-news, di rivelare inganni e trappole dei nuovi profeti, di sfidare con puntualità le tricoteuses di facebook e di ignorare tutti i guardiani della rivoluzione che i dioscuri del cosiddetto cambiamento hanno sparpagliato nei social per far credere che il popolo – “sessanta milioni di italiani”, precisa l’incontenibile ministro dell’Interno – è tutto dalla loro parte. Sarebbe un passo in più rispetto a Célestin Guittard e al suo diario dell’indifferenza. “Ah, se gli schiavi si contassero”, gridava Spartaco mentre i centurioni di Roma lo inseguivano per impiccarlo. E non aveva tutti i torti: gli inquisitori facciano pure i loro proclami, emettano pure le loro sentenze ma gli eretici, anche nei tempi più bui, sono sempre tanti, benché non sembri; e basterebbe che venissero fuori in massa, al di là dei sondaggi, per significare al mondo che l’Italia non è tutta sovranista, e che la democrazia non è stata e non sarà ghigliottinata. Un vaste program, verrebbe da dire. Ma sarebbe già un modo, per niente inutile, di ingannare il tempo, in attesa che il Pd dica che cosa vuole per sé e per gli altri; o che Berlusconi si decida a scegliere tra i moderati e gli estremisti, tra Salvini e quel poco di Forza Italia che gli è rimasta appiccicata addosso; o che finalmente venga fuori un leader capace di stupirci con il suo programma e di rapirci con il suo carisma.
Ma ci sarebbe anche una terza via per affrontare senza sconforto la traversata del deserto. Ed è quella di vedere il destino che la storia, scusate la parola grossa, ha riservato alla ribalderia politica di quei movimenti che, nel bene o nel male, si sono nutriti negli ultimi decenni delle stesse rabbie, degli stessi risentimenti, delle stesse proteste che Cinque Stelle e Lega hanno portato la mattina del 5 marzo scorso al governo del Paese. Ricordate il fuoco fatuo dell’Uomo Qualunque, il fronte fondato nel ’46 da Guglielmo Giannini, o la ventata forcaiola che agli inizi degli anni Novanta accompagnò le imprese giudiziarie di Mani Pulite o il Coordinamento antimafia che qualche anno prima, sotto la guida del sindaco Leoluca Orlando e del gesuita Ennio Pintacuda, aveva spadroneggiato a Palermo?
Per carità, ogni epoca ha la sua croce e ogni movimento ha le sue parole e le sue ambizioni; ma l’esperienza che è possibile accostare di più ai populisti di oggi è certamente quella giustizialista che, in un nome di un principio sacrosanto quale era la lotta ai boss che soffocavano e insanguinavano la città, trasformò il sindaco Orlando in un tracotante professionista dell’antimafia, in un Minosse dalla coda giudicante – “Giudica e manda secondo che avvinghia“ – di fronte al quale ogni avversario non poteva che zittirsi: perché, nell’eventualità che continuasse ad opporsi, il Coordinamento antimafia, ispirato proprio da Orlando, tirava fuori un editto col quale si accusava il malcapitato di essere, a dir poco, un fiancheggiatore delle cosche.
Era la criminalizzazione del dissenso. Una tecnica che Salvini e Di Maio adottano senza pudore e senza rossore quando si trovano di fronte a una domanda spinosa e dovrebbero invece ammettere una contraddizione, una colpa o una responsabilità. Ricordate quando al leader della Lega hanno rinfacciato di avere approvato la legge che prorogava la concessione al gruppo Autostrade? Lui, inchiodato dalla domanda, cercò lì per lì di tergiversare, ma riprese subito fiato e replicò sostenendo che non accettava critiche da chi negli anni successivi non aveva adeguatamente vigilato sulle autostrade in generale e sul ponte del disastro in particolare.
Della criminalizzazione del dissenso, ai tempi di Orlando, fu vittima anche lo scrittore Leonardo Sciascia, autore sul Corriere della Sera di un articolo durissimo, manco a dirlo, sui professionisti dell’antimafia. Il sindaco non sopportò l’affronto e gli scatenò contro – oggi avrebbero provveduto gli esagitati di facebook – i pretoriani del Coordinamento. I quali non ebbero ritegno a bollare con un insulto mafioso, quacquaraqua, l’onestissimo e timido Sciascia. Non solo. I furori di Orlando finirono per aggredire persino Giovanni Falcone, il giudice che istruì il maxiprocesso alle cosche e che mandò in galera il gotha di Cosa Nostra, da Totò Riina a Leoluca Bagarella, da Pippo Calò a Michele Greco. Lo accusò – inopinatamente, provocatoriamente – di “tenere le prove nel cassetto” e di non indagare a sufficienza lì dove c’erano da scoprire le magagne di Salvo Lima e di Giulio Andreotti. Nessuno ha mai capito le ragioni di quell’attacco greve e sconsiderato. Resta però il fatto che i populisti di ogni genere e qualità tendono quasi sempre a dilatare il conflitto tra politica e giustizia. E lo fanno perché credono di incarnare il popolo e, con il popolo, la legge. Avrete certamente visto con quanta irruenza e con quale urtante irrisione Matteo Salvini, ministro dell’Interno, ha fronteggiato il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, che lo ha scritto nel registro degli indagati per sequestro di persona, arresto illegale e abuso di ufficio. Dopo avere mostrato i muscoli per dieci giorni sulla pelle di 177 sventurati nordafricani lasciati ad arrostire sulla nave Diciotti della Guardia Costiera, attraccata al porto di Catania, il ministro pretendeva di pilotare lui le indagini e gli interrogatori del pm. E quando ha visto che il magistrato non si è prestato al gioco, ha cominciato a rivendicare l’insindacabilità delle azioni di governo, anche la più spietata. Criminalizzando, a suo modo, l’operato di Patronaggio il quale, anziché aprire un’inchiesta sul ministro, che si muove – va da sé – solo per “proteggere gli interessi di sessanta milioni d’italiani”, avrebbe dovuto salire su quella nave esclusivamente per inchiodare gli scafisti e i trafficanti di droga.
Non c’è verso. I populisti non si spezzano e non si piegano. Finché la folla applaude. Ma la folla, si sa, è mobile, umorale e soprattutto capace di divorare se stessa. La parabola di Orlando e del Coordinamento antimafia di Palermo – quella che abbiamo appena raccontato – ha cominciato a precipitare non subito, ma dopo una decina d’anni. Prima scomparve il Coordinamento, straziato dalle lotte interne; e poi scomparve la Rete, il partito che Orlando aveva fondato per esportare il professionismo dell’antimafia oltre la Sicilia, dilaniato anch’esso dalle rivalità, dalle correnti e dai flop elettorali. Ma lui, il “sinnacollando”, così lo chiamano i palermitani, dopo oltre trent’anni è ancora lì, a fare e disfare le cose del Comune, a gestire con le clientele teatri e aeroporto, a tamponare disperatamente le falle della monnezza e dei trasporti, a sistemare i conti che non quadrano, a rassicurare parenti e amici che i mali della città non arrivano mai per colpa sua, a convincere la gente che prima o poi verrà il tempo di un nuovo Rinascimento: così dice. E noi qui a chiederci: quanto durerà?
Non sono brevi e felici i tempi del populismo. Hanno radici larghe, hanno tramonti lunghi. Il grido di Spartaco forse ci salverà.