Basta fare i conti con le dita per capire che aria tira: a pochi giorni dalla presentazione delle liste, quella del Movimento 5 Stelle, a Palermo, è ancora monca. Sguarnita. Non ci sono big e, al netto di qualche uscente (come Antonino Randazzo, Concetta Amella e Viviana Lo Monaco) il resto della compagine – con tutto il rispetto – è anonima. Poco appetibile sotto il profilo elettorale, tanto che nelle proiezioni fatte circolare in queste ore dagli addetti ai lavori, al M5s spetterebbero al massimo tre consiglieri (con una percentuale oscillante fra il 5 e il 7%). Il Pd, a confronto, ha presentato la fanteria pesante (con dentro Giuseppe Lupo, capogruppo all’Ars, e Teresa Piccione). Ma facendo sempre i conti con le dita, e azionando il cervello, è chiaro che il disimpegno mostrato dai grillini per la compilazione della lista, e il fastidio mal celato per l’imposizione di Franco Miceli dall’alto, finirà per condizionare il voto del 12 giugno.
Ci sono tutte le promesse per un massacro. Basti una premessa: Ugo Forello, che fu il candidato grillino nel 2017, ha fondato un proprio gruppo al Consiglio comunale (Oso) e ora appoggia Fabrizio Ferrandelli, di cui sarà vicesindaco in caso di elezione. Ma anche il resto della compagine si è via via sfaldata. Il motivo? “Ci siamo accollati il disastro del Pd” sussurra qualcuno. In effetti è il sentore di molti. Palermo, a posteriori, era la piazza meno adatta all’esperimento progressista. L’eredità di Orlando, che rischia di danneggiare in maniera irreparabile Franco Miceli, anche per i Cinque Stelle è un’onta eccessiva. E’ come se al termine di cinque anni condotti in trincea, a segnalare le magagne del professore, la parte irrazionale del Movimento abbia deciso di andarci a nozze, caricandosi sulle proprie spalle il bagaglio delle sciagure denunciate. Qualsiasi giustificazione può essere fraintesa.
Ma anche i vertici – lo si può notare dalle apparizioni pubbliche e dalla presenza sui social – non è che stiano dando l’anima per questa battaglia palermitana (compresi i parlamentari dell’Ars). La base, inoltre, si sente un po’ snobbata dallo stesso Miceli – “Sarò Franco” – che in questa prima parte di campagna ha visibilmente preferito gli eventi dem. In cui si sente più a casa. Eppure è stato un deputato palermitano dei Cinque Stelle, Steni Di Piazza, a fare il primo passo. Presentando l’architetto a Giuseppe Conte, e perorando la sua causa. “Un’imposizione dall’alto”, secondo alcuni esponenti del M5s, che non gliel’avrebbero ancora perdonata. Tant’è che nella prima fase, anziché consegnarsi armi e bagagli a Miceli, si pensava di correre da soli e “perdere con onore”. Una prospettiva accantonata per le pressioni romane e per amor di coalizione. Ma è mancato il cambio di passo, e continua a mancare. Anche da parte del candidato a sindaco, che non riesce a indirizzare la campagna nel segno della “discontinuità” e per questo – si vocifera – rischia un’imbarcata già al primo turno.
Non sarebbe giusto né onesto dare la colpa soltanto agli altri. E’ il Movimento, negli anni e nei mesi, ad aver perso la propria caratura. Numerica, innanzi tutto: alle ultime Amministrative, a Palermo, il M5s ottenne il 17,3% come voti di lista (con sei consiglieri eletti), superando quelli del candidato sindaco Forello (che collezionò 44 mila preferenze, fermandosi intorno al 16%); alle Politiche dell’anno successivo, addirittura, i Cinque Stelle sbancarono Palermo città: il 45% ottenuto nelle urne contribuì al cappotto nei collegi uninominali (28 a 0 per gli uomini di Grillo). Un risultato impensabile, ma che a distanza di tempo restituisce la misura dello scollamento fra i vertici e la base. Fra gli eletti e gli elettori. Fra le azioni e le promesse. Uno scollamento insanabile giacché il Movimento di oggi non riesce più nemmeno a darsi delle regole.
Oltre all’annosa vicenda della nomina dei referenti regionali e provinciali, su cui Conte non sembra in grado di decidere (bontà sua), l’altra questione rimasta in sospeso è quella legata al vincolo del doppio mandato. Che al prossimo giro, per inciso, priverà il gruppo parlamentare dell’Ars di tanti deputati perbene e preparati. Uno di essi, Giampiero Trizzino, si era detto disponibile a candidarsi a sindaco di Palermo, poi ha fatto un passo indietro: avrebbe dovuto chiedere una deroga (un precedente di per sé fastidioso) e, comunque, ha preferito rinunciare “per amore dell’unità del M5s e soprattutto della mia città”. E, magari, per favorire una soluzione condivisa, di cui un pezzo del Movimento, però, è stato tenuto inizialmente all’oscuro.
A una richiesta di chiarezza generale che arriva dalle viscere del M5s, Conte non ha mai dato risposte precise. Nuccio Di Paola, attuale capogruppo all’Ars, è il referente regionale solo sulla carta (uno scenario che ha scatenato l’ira di Dino Giarrusso, l’ex Iena di stanza a Bruxelles); Giancarlo Cancelleri non sa ancora se potrà candidarsi alla Regione, con quale schieramento e grazie a quale metodo (il tavolo sulle primarie è già “impacciato”); a Palermo non si è capito chi decide sulla composizione della lista. In tutto questo bisogna trovare qualcuno di “candidabile”, qualcun altro che cerchi i voti, e qualcun altro ancora che affigga i manifesti. L’entusiasmo è svanito da un pezzo, e si sta facendo pochissimo perché torni. Il disimpegno, poi, è ancora peggio. Questa cessione di sovranità in favore del Partito Democratico deriva pure dalle scelte di Messina, dove non a caso il candidato sindaco è Franco De Domenico. Nonostante il peso specifico di alcuni parlamentari autoctoni, come Antonio De Luca e Valentina Zafarana.
E’ un Movimento senza arte né parte, che già apprezza poco – per indole e per trascorsi – le elezioni amministrative; e che adesso, senza uno straccio di organizzazione o di interesse, rischia davvero di disintegrarsi. E’ molto più facile attaccarsi alla questione morale degli avversari, e alle frequentazioni di Lagalla coi Cuffaro e coi Dell’Utri, che non fornire motivazioni al proprio popolo, se ancora esiste, per sostenere Miceli. E’ l’antipolitica che si ripropone per mancanza di alternative. L’ultima sberla l’ha assestata Draghi, nella Capitale, dichiarando il Superbonus 110% un esperimento fallito. Era una scommessa dei Cinque Stelle, come il Reddito di Cittadinanza. Ma qui sta crollando tutto.