E’ cosa nota che si sta su Facebook come d’autunno sugli alberi le foglie. Si cade facile al primo soffio di minchiata. Perché è la minchiata che attira like, mica un articolo di Limes sulla crisi in Medioriente.
Ed è ancora cosa più nota l’esistenza di un riflesso condizionato che si attiva quando l’oggetto di un post è un cane o un gatto. Più o meno un’insolita rivisitazione in chiave social dell’esperimento pavloviano.
Così accade che il titolare di un noto bar, con un buon seguito in rete, pubblichi la foto di un cane che da qualche giorno sembra avere trovato riparo all’interno del suo locale, evidentemente attratto dalla frescura del pavimento o dal profumo di rosticceria.
Quello che sarebbe dovuto essere semplicemente l’ennesimo racconto di un episodio più o meno curioso svoltosi in quel bar, diventa invece un manifesto per il rispetto e la tutela degli animali, con l’autore ignaro primo firmatario.
Ignaro perché probabilmente non si sarebbe mai aspettato quella caterva di like, quei tir di commenti, quei silos di condivisioni. E così si ritrova, suo malgrado, e solo per non avere cacciato via un randagio dal suo bar, paladino di animalisti e non, quasi un eroe. Però nessuno si è chiesto se quel valore nobile – l’amore e il rispetto per gli animali – faccia davvero parte dell’animo dell’autore del post. Quel valore – fissato da migliaia di like – dato invece per certo. E non importa se quel comportamento altruistico sia solo frutto della circostanza, del caso, un comportamento morale dettato esclusivamente dalla situazione. Non importa perché è l’apparenza ciò che conta e che tutto muove. Sui social come nella vita reale.