La moglie percepiva un reddito di cittadinanza di 500 euro al mese, il marito (il boss Stefano Marino, appena arrestato dalla Squadra Mobile assieme al fratello Gabriele) si occupava di Cosa Nostra e assoldava gli “spaccaossa” per lucrare sulla disperazione dei poveri. Da Palermo emerge un quadro raccapricciante. In cui si intrecciano disperazione e furfanteria, massacro e imbroglio, sussidi e cosche. Un racconto che per la verità non attecchisce solo in Sicilia.
Era il 13 marzo quando Beppe Grillo, durante uno spettacolo a Catanzaro, attaccò i calabresi perché in pochi avevano richiesto il reddito di cittadinanza: “La Calabria è la regione che in assoluto ha fatto meno domande – disse il padre fondatore del Movimento 5 Stelle -. C’è un paese qui che sia chiama Dinami, il più povero di Italia, dove nessuno ha fatto domanda per il reddito. E allora diciamolo che o lavorate tutti in nero o siete tutti della ‘ndrangheta”. Lì per lì furono risate, che nei giorni si trasformarono in polemiche, ma che oggi, rilette in chiave siciliana, ispirano una riflessione. Che addirittura supera l’immaginazione di Grillo: perché da queste parti, anche gli affiliati a Cosa Nostra fanno richiesta per il reddito di cittadinanza. E non si limitano al lavoro sporco.
Come se non bastasse il lavoro nero, i cambi di residenza fittizi, le false dichiarazioni, anche la mafia si infiltra nelle maglie di un provvedimento sciagurato per alcuni, perfettibile per altri, ma capace – fin qui – di creare più disastri (anche etici) che benefici. Nicolò Giustiniani è fra i nove arrestati della Polizia per la vicenda delle truffe assicurative che la mafia di Brancaccio esercitava mediante gli “spaccaossa”. Giustiniani percepiva 1.000 euro al mese di reddito di cittadinanza, ma durante il blitz delle forze dell’ordine gli è stata sequestrata una mega villa a Ficarazzi, protetta da un cancello monumentale (con incise le sue iniziali), con cinque camere, due bagni, una cucina in muratura, la piscina, l’idromassaggio e una tv da 62 pollici. Per un totale di circa 300 mila euro. Ci sarebbero voluti mesi e mesi di sussidio. In realtà il sussidio era un vizietto per ergersi a cittadino (povero) come gli altri.
Ma anche il boss Stefano Marino, che aveva architettato le truffe assicurative e creato l’esercito degli “spaccaossa”. godeva del beneficio economico. Lo incassava la moglie ovviamente, Gabriella Chifari, che nelle intercettazioni rese note della Mobile si preoccupava degli interventi da realizzare nel villino di famiglia. Percepiva 500 euro al mese. Ma altri tre elementi della “banda” erano riusciti a superare le strettoie dell’Inps e si vedevano caricare da parte dello Stato i soldi sulla card delle Poste: 600 euro al mese per Ignazio Ficarrotta, 700 per Pietro Di Paola e addirittura 1.300 per Angelo Mangano. Questi i nomi e cognomi degli “uomini del disonore” come li ha definiti il questore di Palermo dopo il fermo.
Laddove la morale non esiste e “l’inganno è spesso il germe della legge”, per usare le parole di Gery Palazzotto su Repubblica, casi del genere proliferano. Anche se la Sicilia, è storia di questi giorni, dal marzo scorso ha già individuato mille furbetti del reddito. Ma per questa fattispecie di reato la lezione “ne punisci uno per educarne cento” non ha alcuna validità. La mafia, d’altronde, offre sponde e protezione. Un sistema talmente oleato da rendere difficile, se non impossibile, rintracciare i colpevoli in odor di cosca. Di recente, a proposito di mafia, è stato arrestato un presunto trafficante di droga che agiva sulla rotta Napoli-Palermo (percettore di sussidio per 500 euro al mese); mentre la questura di Catania ha indagato su una giovane cantante neomelodica, il cui zio è stato latitante per 18 anni, che aveva investito i primi soldi guadagnati grazie al reddito per incidere alcuni brani. Denunciata per truffa allo Stato – per mancanza di requisiti – non si era persa d’animo e aveva riproposto la domanda, a suo dire perfettamente legittima.
Ed è sempre di questi giorni – ma qui è più una questione di malaffare – la storia di un trapanese, ufficialmente disoccupato e senza entrate, che portava a casa 1.000 euro al mese grazie al beneficio di legge. Peccato che svolgesse un’attività parallela ben retribuita: si occupava di contrabbando di sigarette. Rientra fra i sei italiani fermati a bordo di due imbarcazioni su cui la Finanza aveva puntato gli occhi. A bordo quasi 7 tonnellate di sigarette prodotte in Tunisia ed Emirati Arabi, destinate alla piazza di Palermo, che avrebbero prodotto guadagni per un milione di euro.
Le mille euro del reddito, in confronto, sono bruscolini. Ma accentuano la dimensione del problema: più che strumento utile al contrasto della povertà, sembra un modo per accentuare le differenze. Per lucrare – questo sì – su un esercito di bisognosi che attraverso il reddito vorrebbero davvero ripartire. E’ pure l’auspicio di Luigi Di Maio, in questi giorni in visita in Sicilia: “Fino ad ora il reddito di cittadinanza è stato un aiuto, ora abbiamo il nuovo decreto e i sindaci possono chiamare queste persone per lavori di pubblica utilità”. Il capo della Farnesina, primo sostenitore di questa misura-simbolo del suo impegno politico, ha annunciato un software di ultima generazione che permetterà di conoscere le offerte di lavoro in tutta Italia”. Almeno a quelle i mafiosi potrebbero rinunciare.
I NUMERI DEL REDDITO DI CITTADINANZA
Secondo quanto rilevato a fine ottobre dall’Ossrevatorio dell’Inps, la Sicilia è la seconda regione italiana, alle spalle della Campania, per numero di domande accolte: sono 176.871 (a fronte delle 7.138 decadute). Il numero di richieste pervenute è di poco superiore al milione (con oltre 2,2 milioni di soggetti interessati), mentre la percentuale dei truffatori è vicina allo zero assoluto (0,03%). L’importo medio mensile garantito dal sussidio è di 519 euro. I nuclei familiari che percepiscono il reddito sono 857.141, a fronte di 120 mila che ottengono le pensione di cittadinanza.