Contro lo strapotere dei patrioti

Nel selfie di gruppo l'ex assessore Manlio Messina, il ministro Nello Musumeci e Gaetano Galvagno, presidente dell Ars

Nel lento approssimarsi della politica siciliana alle elezioni Europee, resiste il gioco delle alleanze. Finora lento e improduttivo. Con un comune denominatore: la ricerca di un posizionamento utile per far scattare un seggio a Bruxelles. Pochi partiti ce l’hanno già in tasca: fra questi, Fratelli d’Italia, che potrebbe avvantaggiarsi del voto d’opinione e dell’eventuale presenza in lista della premier Giorgia Meloni per scavallare il 20 per cento e assicurarsi un deputato siciliano in Europa, o magari due.

E’ una sentenza già scritta, che attende solo l’ufficialità dei numeri. E che avrà inevitabili riflessi sul futuro della Regione, su pesi e contrappesi all’interno del governo, ma anche sui processi decisionali, sempre più sbilanciati a destra. Schifani ha già ceduto il passo più volte alle prepotenze patriote e, dopo averli sfidati apertamente sulla scelta degli assessori e sui misteri di Cannes, è dovuto tornare sui propri passi, inaugurando una tregua per il quieto vivere dell’esecutivo. Si è sacrificato sull’altare del più forte, ha baciato la pantofola dell’ex assessore, Manlio Messina, durante la sceneggiata di Brucoli; si è trovato costretto a sconfessare se stesso, anche su alcune scelte strategiche che investono l’assessorato più bollente: il Turismo. Ad esempio, dopo aver fermato il Giro di Sicilia (ciclismo) per un anno, ha già promesso che dal prossimo si tornerà in sella. Perché operare in continuità col governo precedente, vuol dire adottare gli stessi metodi e la stessa vision. Cioè puntare sul cicloturismo e sul cinema, ma soprattutto sulla comunicazione (e sugli sprechi che comporta).

Quella di Schifani è una partita persa. Ha confidato, proprio a Brucoli, che Messina resta il suo consulente per una materia così difficile da districare; e sebbene abbia ritirato in autotutela il provvedimento con cui l’assessorato assegnava 3,7 milioni – senza bando – a una società lussemburghese per uno shooting a Cannes, il presidente non ha mai rinnegato del tutto l’operato di chi l’ha preceduto. Ne è prova provata la staffetta tra i “rampolli” Scarpinato e Amata in via Notarbartolo; le uscite condivise alla Bit di Milano o ovunque ci fosse bisogno di ri-spolverare l’immagine della Regione; l’occupazione costante dei teatri e della cultura, avallata dalla pratica del silenzio assenso rispetto ad alcune decisioni sferzanti, di natura più politica che istituzionale. Come la scelta del presidente dell’Ars Gaetano Galvagno di rimuovere Patrizia Monterosso dai vertici della Fondazione Federico II. Con una pec.

Una decisione fatta passare come logico spoils system, ma indicativa del fatto che in Sicilia comandano loro. Messina è stato abile a passare dalla versione scanzonata e volgare del suo primo governo, a quella militante e (un po’) militare di adesso. Dopo essersi fatto trainare da Musumeci sui grandi palcoscenici e aver ottenuto l’appoggio di Francesco Lollobrigida (massimo esponente del cerchio magico di Giorgia), ha fagocitato persino il giovane Galvagno, allievo di Ignazio La Russa, che potrebbe essere la sua prossima punta di diamante nella conquista di Palazzo d’Orleans. Giovane, disinvolto, politicamente pronto: possiede tutte le caratteristiche per aprire un nuovo corso. Schifani si rassegni: è presidente grazie a Fratelli d’Italia e smetterà di esserlo quando lo vorranno loro. I meloniani. Ecco che di fronte a cotanta arroganza, smargiasseria lessicale e occupazione di potere, il resto del centrodestra siciliano ha poche armi per rispondere: l’esperienza, la preparazione amministrativa e la serietà (della proposta).

Se i vari paladini del centrodestra, tutti alla ricerca della collocazione migliore per le Europee, si unissero in un progetto di più ampio respiro, che sappia scrutare oltre la tappa interlocutoria di giugno, si aprirebbero nuove prospettive. Non bisognerebbe parlare per forza di geografia: ci hanno già pensato Meloni con la destra, Renzi con il Centro e Schlein con la sinistra. Ci vorrebbe una convergenza per spezzare la cavalcata senza rivali di Fratelli d’Italia e del Balilla, per arginare lo strapotere di un blocco catanese che persino a molti catanesi, soprattutto di destra, fa storcere il naso. Ma dove arrivano queste nuove legioni? Cosa portano della vecchia scuola? Cosa insegneranno a chi verrà dopo? I trucchi e le intimidazioni?

Una riflessione che dovrebbero fare i vari Luca Sammartino, Raffaele Stancanelli, Raffaele Lombardo, Totò Cuffaro. Così diversi, ma così simili nel proporre una visione alternativa di società e di politica, lontana dagli estremismi e dalle prepotenze. Rischiano di essere rasi al suolo dallo strapotere della corrente turistica di FdI, che oggi ha cannibalizzato il partito stesso della Meloni. Legarsi insieme, anche per una forma di difesa, sarebbe l’unico sistema per garantire la loro stessa sopravvivenza. Per offrire un’alternativa a chi dovesse capire che la via maestra non è quella di Cannes o di SeeSicily, scandali finiti sotto la lente d’ingrandimento dei magistrati e persino della Commissione europea. E non è soltanto una questione di essere della Lega, della Democrazia Cristiana o del Mpa. E’ andare oltre, senza per questo doversi snaturare. Sono tutti diplomatici, moderati, a tratti democristiani. Equilibristi della politica, capaci di intercettare il vento e farsi trascinare. Altrimenti sarebbero deragliati da tempo e invece hanno ancora delle cartucce.

Questa, ovviamente, è utopia. E’ utopico vederli tutti con la stessa maglia alle prossime Europee, ma una discesa in campo di Stancanelli potrebbe convincere un pezzo di FdI a seguirlo nelle urne, spogliando d’autorevolezza la corsa della “corrente turistica”; cosa che ha già fatto Sammartino, facendo transitare nel Carroccio – mica un partito qualunque – le preferenze legate alla sua persona, originariamente di sinistra. Lombardo ha tenuto in vita il mito autonomista pur dovendo attraversare mille peripezie con la giustizia; Cuffaro addirittura è risorto dopo il carcere, cinque anni a Rebibbia, avventurandosi nella sfida impossibile di ricreare un partito sepolto dalla storia e da Mani pulite: la DC. Se questa non è personalità, allora non esiste la personalità. Ma bisognerebbe andare un passo oltre, affidandosi al coraggio e una prospettiva che non è più legata al proprio destino individuale, ma a quello della Sicilia. Tanti, troppi se lo dimenticano.

A quest’inno accorato – pensate il livello d’utopia – potrebbe aderire pure Cateno De Luca, che a furia di allearsi a destra e a manca, e rimanendo sempre deluso, oggi non sa più che pesci pigliare. Ha stretto accordi con l’ex ministro Castelli e ItalExit (senza più Paragone), alleanze quasi ininfluenti sotto il profilo elettorale. Ha flirtato con Renzi e Calenda, rimediandone amarezze enormi. Conosce Lombardo e gli altri, c’ha avuto a che fare, s’è misurato a parole (mai a livello di governo, giacché aspetta ancora di diventare il sindaco di Sicilia). Ma davvero l’idea di fare squadra, e provare a interrompere il dominio un po’ truce di certi patrioti – ne ha avuto la riprova a Taormina, occupata da FdI anche in talune fondazioni – non l’ha ancora convinto a un altro salto nel vuoto? Sarebbe, forse, il più grande della sua carriera. Sommarsi a un potere, che spesso ha ricevuto il suo disprezzo, per stopparne un altro che ha già rotto gli argini. Chissà.

Alberto Paternò :

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