Si insediano oggi, 23 maggio, giorno in cui l’Italia celebra con dolore il trentunesimo anniversario della strage di Capaci, quel maledetto tratto di autostrada dove i corleonesi di Totò Riina massacrarono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. Credono che la cipria, un po’ annacquata, della retorica possa nascondere o quantomeno appannare l’inutilità di una Commissione parlamentare antimafia nata oltre sessant’anni fa per contrastare l’invadenza di Cosa Nostra e divenuta nel tempo una sorta di Cappella cardinalizia all’interno della quale la politica celebra il proprio impegno – certamente sincero e a tratti persino appassionato – contro l’arroganza dei boss e le trame delle cosche.
Un impegno istituzionale, formale, quasi burocratico. Perché, nei fatti, i volumi accatastati nelle stanze di palazzo San Macuto, sede della Commissione bicamerale d’inchiesta, raccontano una storia fatta di lunghe e spossanti audizioni, di interminabili verbali, di ambiziosi ordini del giorno, di relazioni di maggioranza che vogliono comprendere tutto e di relazioni di minoranza che hanno invece la pretesa di narrare il contrario di tutto. Raccontano gli ardori giustizialisti dell’antimafia chiodata, quella che ha assecondato i teoremi, anche i più farneticanti, dei cosiddetti magistrati coraggiosi; e anche la nobile scelta di quei pochi senatori e deputati che hanno insistito comunque per affermare, a costo di essere accusati di intelligenza col nemico, le regole dello stato di diritto.
Dibattiti utili, per carità. Che tuttavia non hanno spostato di un solo millimetro il fronte della lotta alla mafia né hanno sollevato di un centimetro le sorti di quelle regioni, come la Sicilia o la Calabria, afflitte da una secolare condizione di degrado e di abbandono. Anzi, hanno finito per giustificare, se non addirittura santificare, quel clima di perenne emergenza all’interno del quale molti apparati e molti professionisti dell’antimafia hanno cercato e cercano ancora di nascondere e salvaguardare i propri privilegi.
Diciamolo. La Commissione parlamentare antimafia che oggi va ad insediarsi solennemente ha una sola strada per mostrare e dimostrare la propria utilità. Ed è quella di dire ufficialmente al Paese alcune verità delle quali i fanatici del giustizialismo e i giudici che vogliono riscrivere la storia d’Italia non intendono purtroppo prendere atto. La prima è che la mafia di trent’anni fa – quella che con le stragi spargeva terrore e sangue – non esiste più: quasi tutti i boss di quella nefanda stagione, buon ultimo Matteo Messina Denaro, sono stati catturati e murati vivi dietro le sbarre di un carcere duro e senza redenzione. Certo, resistono i rimasugli e resiste pure il pericolo di improvvisi e sanguinari rigurgiti di violenza. Ma il dato di fondo è che lo Stato ha vinto, grazie al sacrificio dei suoi uomini migliori, mentre la mafia ha perso. Se si prende atto di questa verità si possono rivedere molte cose. C’è da riconsiderare, ad esempio, il mastodontico sistema delle scorte, molte delle quali sono diventate l’ostentazione compiaciuta di un potere giudiziario spesso sovradimensionato. E ci sono da riconsiderare soprattutto i metodi e gli strumenti con i quali sono stati gestiti, in tutti questi anni di processi farlocchi, i pentiti e i pataccari offerti ai collegi giudicanti come oracoli del bene mentre non erano altro che attrezzi di scena per “boiate pazzesche” recitate non sui palcoscenici ma nelle aule dei tribunali.
Non è una strada facile. Perché richiede molto coraggio. Ma senza una svolta, decisa e radicale, resta la Cappella cardinalizia di San Macuto con la vecchia liturgia delle chiacchiere inutili, delle mozioni ipocrite e della fuffa beffarda data in pasto a un Paese che legittimamente chiede verità e giustizia.