Per la prima volta dopo 36 anni, Claudio Fava ha rinunciato al corteo che da piazza Roma, in centro a Catania, si è diretto fin sulla lapide che ricorda l’omicidio del padre Giuseppe, giornalista antimafia e fondatore de “I Siciliani”, avvenuto il 5 gennaio 1984. Il presidente della commissione regionale Antimafia, e deputato all’Ars, Vive il momento “con una certa stanchezza”, e per questo tenta di “recuperare un rapporto più privato, personale con i miei sentimenti e con i miei ricordi. La sensazione di essere prigionieri dentro una liturgia non riguarda soltanto l’anniversario degli altri, ma anche i propri”.
Non è nuovo a disertare le commemorazioni. L’anno scorso fece discutere la sua scelta di non andare all’aula bunker per il ricordo di Giovanni Falcone. Ma adesso c’è di mezzo suo padre…
“Dopo 36 anni, la sensazione che questa liturgia sia stata soltanto un analgesico per sottrarre qualche pensiero molesto, o qualche fastidio di troppo, è pesante, intollerabile. Forse questi morti e questi ricordi avrebbero bisogno di un’altra modalità e di un altro racconto, che non sia quello a cui siamo abituati per tradizione qui in Sicilia”.
Il giorno della scomparsa di suo padre coincide con l’anniversario della nascita di Peppino Impastato. Il settantaduesimo. Cosa li lega, al di là del tragico destino?
“Il giornalismo, inteso nella sua forma più alta e meno ortodossa. Il giornalismo inteso come curiosità civile, ricerca, esercizio del dubbio, e non soltanto come scoop o notizia da trovare e da svelare. Peppino Impastato, in modo del tutto irrituale, è stato uno straordinario giornalista perché ha costruito una “sua” narrazione civile di quegli anni e di quei luoghi, come nessuno aveva saputo fare. Senza il bisogno di star dentro una struttura tradizionale, come un giornale o una redazione, e senza avere un riconoscimento professionale. Giuseppe Fava, pur avendo un percorso più ortodosso, nel momento in cui si mette a capo di una comunità di ragazzi che hanno tutti l’età di suo figlio, per inventarsi un giornale che non debba chiedere permesso a nessuno, fa una scelta di totale disobbedienza, e inventa anche lui una forma di giornalismo che non è la somma delle notizie, ma la somma delle curiosità. Il bisogno di una domanda in più”.
Sono entrambi dei precursori, a modo loro…
“Impastato e Fava raccolgono i segni della complessità di quei tempi, che non si può risolvere a colpi di accetta tra bene e male, o buoni e cattivi. La complessità è una misura che tiene insieme carnefici e vittime. In questo sono stati due intellettuali ancor prima di essere giornalisti”.
Oggi il giornalismo ha cambiato approccio rispetto al sistema mafioso? E’ più remissivo di un tempo?
“Credo che la capacità di interpretare la complessità del fenomeno mafioso, inteso come fenomeno di potere ancor più che di sindrome criminale, sia legata più a quel tempo, alla generazione di Impastato e de “I siciliani”. Oggi c’è un racconto molto episodico che va poco in profondità, ma anche le organizzazioni criminali, nel frattempo, hanno mostrato sempre meno, e sono diventate sempre più un pezzo del panorama, una parte significativa di questo cuore di tenebra. Ma senza le esuberanze, le manifestazioni di folclore e di tragica violenza che avevano prima. Per questo è più complicato raccontare la mafia. Occorrerebbe uno sguardo capace di andare oltre i fatti”.
Non mancano però minacce e intimidazioni ai danni di molti colleghi.
“Oggi c’è una maggiore diffusione della consapevolezza – anche giornalistica – su cosa sia la mafia. La moltiplicazione degli strumenti d’informazione, attraverso i siti online e i giornali web, o attraverso esperienze che un tempo sarebbero state di periferie e oggi sono centrali, permette di avere molti sguardi, che alla fine offrono un racconto abbastanza completo. Un tempo gli sguardi erano pochi ed isolati, ed era facile individuarli e colpirli. Oggi il racconto delle mafie va forse meno in profondità. Ma certamente è più diffuso e corale, ed è un racconto che cammina sulle gambe di tanti di cui non conosciamo nemmeno i nomi. Gente che ha più dignità professionale di alcuni giornalisti portati sugli altari, ma che hanno finito soltanto per recitare se stessi. Ci sono decine, centinaia di loro colleghi, dai nomi sconosciuti, che questo lavoro di comprensione, indagine, approfondimento e investigazione continuano a farlo”.
Oggi l’Ars in seduta solenne commemora Piersanti Mattarella, a quarant’anni dal suo assassinio.
“Forse bisognerebbe archiviare la parola “commemorazione” ed evitare di raccontare i morti nel giorno della loro morte. Bensì nei giorni della loro vita. E’ durante la vita che produssero, costruirono, rappresentarono, e determinarono anche le ragioni della loro morte. Forse bisognerebbe avere il coraggio di tirarli giù dal piedistallo, in cui per semplicità, per quieto vivere, per abitudine o per tradizione li abbiamo collocati; e farli diventare uno strumento di racconto e di comprensione del presente. In tal senso, Mattarella è prezioso perché svela un’idea di governo lontana anni luce dalle forme prudenti, compatibili, quiete con cui oggi viene interpretata la funzione di governo”.
In che modo è uno strumento utile? Qual è il messaggio che ha lasciato in eredità la sua azione?
“Mattarella muore perché è un presidente della Regione che sa dire dei “no”, a costo di scontentare, di dividere, di allontanare. L’arte di dire “no” è una qualità fondamentale della politica, che non può essere soltanto ricerca del consenso, ma dovrebbe essere ricerca della qualità della soluzione. Purtroppo si è perduta. Dopo Mattarella sono pochissimi gli episodi in cui i capi di un esecutivo regionale abbiano saputo dire dei “no”, sebbene i prezzi da pagare fossero infinitamente meno tragici e drammatici di quello pagato da Mattarella. Oggi un presidente della Regione non dice “no” perché teme il dissenso, teme di perdere il controllo della propria maggioranza. E al tempo stesso ritiene che l’arte suprema debba essere quella del galleggiamento, della sopravvivenza, dell’accomodamento. Mattarella ci disse una cosa completamente diversa e ci spiegò che alla fine la qualità del buongoverno passa anche da alcuni fatti traumatici: archiviare abitudini, privilegi, certezze, garanzie; determinare cambi di passo e di fase. Naturalmente anche scontentando”.
In un fondo sul quotidiano “La Sicilia”, Musumeci ha spiegato che l’attuale governo della Regione sta provando a dotarsi di tutti gli elementi, e di avere le “carte in regola”, affinché il lavoro di Piersanti Mattarella non vada perso. E’ sulla buona strada, secondo lei?
“Io, in realtà, vedo un governo che non ha saputo dire un solo “no”. Che considera la qualità più alta della propria funzione galleggiare, sopravvivere, rimanere immobili finché gli eventi ci passino sopra. Quelli di Musumeci sono gradevoli auspici, come quelli che esprimeva in campagna elettorale, ma è una persona che appare assai divisa tra ciò che propone di sé e ciò che pratica”.
La questione morale è un tema all’ordine del giorno per la Regione siciliana?
“Viene messa sotto il tappeto come la polvere. In questi giorni, abbiamo appreso che la signora Maria Grazia Brandara, rappresentante per conto della Regione presso lo Ias (Industria Acqua Siracusana) di Priolo, ed ex commissario dell’Irsap, è indagata a Messina per reati ambientali. E al tempo stesso si trova sotto processo a Caltanissetta perché considerata assieme a Montante una delle tessitrici di un’associazione a scopo politico-delinquenziale. Vedere che la Regione, di fronte a questa manifesta incongruenza di ruoli e di funzioni, risponde di non essere in condizione di toglierla dall’incarico che le hanno conferito, ti dà il senso di una questione morale che è stata evirata, trasferita nell’armadietto delle cristallerie come una preziosa porcellana di Capodimonte e come tale venerata”.
Cosa dovrebbe fare, invece?
“La questione morale è questione di vita e di scelta. La signora Brandara dovrebbe essere esclusa dalle funzioni che le sono state attribuite per delega e indicazioni del governo regionale. Se un governo scopre da un articolo di giornale, dopo due anni, di questa palese contraddizione e ammette di non avere forme e risorse – in realtà non ha volontà e libertà – per chiederle di fare un passo indietro, questo ci fa capire come la questione morale è un capitello corinzio leggiadramente scolpito, e non una pratica del fare e del governare”.
Dopo aver ottenuto l’accordo con lo Stato per spalmare il disavanzo in dieci anni, Musumeci e Armao sono tornati all’attacco. Non vogliono vedersi imporre “cure da cavallo”, ma piuttosto chiedono al governo nazionale di non danneggiare più la Sicilia. La Regione ha buone ragioni per protestare?
“La Regione, da anni, avrebbe dovuto aprire un contenzioso con lo Stato e non l’ha fatto: innanzi tutto per miseria politica e morale del governatore Crocetta che ha venduto l’argenteria di casa per avere qualche spicciolo; e poi, per incapacità sostanziale del governatore Musumeci. Noi dovremmo ricontrattare le funzioni e le prerogative della nostra autonomia, e avere l’autorevolezza per farlo. Credo che oggi ci manchi. Ma continuare a pensare che i nostri debiti siano solo il frutto degli sprechi e degli sperperi di chi c’è stato prima, è un modo bottegaio di considerare la funzione di governo. Musumeci governa da due anni: da un lato, continuiamo a collezionare esempi pittoreschi di spesa legate alla celebrazione dei fasti del ventennio; dall’altro raccogliamo le sue lamentazioni per i debiti che ha ricevuto in eredità dalle passate gestioni. In Sicilia occorrerebbe un’altra intenzione, un’altra qualità e prospettiva di governo, dentro la quale non c’è solamente una revisione complessiva delle forme e dei contenuti della spesa, ma la capacità di andare a ricontrattare le nostre prerogative. Finora nessun presidente lo ha fatto”.
Crede che riusciremo a rispettare gli accordi e presentare un pacchetto di riforme sostenibili entro i 90 giorni fissati dal Consiglio dei Ministri?
“Tagliando ce la faremo. Ma, immaginando una prospettiva di sviluppo legata alla capacità di tagliare secondo le indicazioni di Roma, senza modificare alcuni percorsi d’investimento e di spesa, ridurremo la nostra amministrazione regionale a quella d’un condominio: capace di far quadrare conti e profitti, ma senza una strategia”.