Un cartellone d’eccezione ai Cantieri culturali della Zisa: dieci eventi in sette giorni sotto la direzione artistica di Salvo Piparo. ‘Aedi, Storytelling Fest’ è la rassegna curata dal cuntastorie palermitano, che si snoda lungo percorsi e direzioni diverse. Il denominatore, però, è comune. “Dietro storytelling, una parola inglese, moderna, si cela l’arte antica del cunto – dice Piparo –, cioè la capacità di raccontare storie antiche attualizzandole. E’ una parola che abbraccia il senso e l’assenza di quello che facciamo. Oggi la comunicazione è farcita dell’arte dello storytelling: basti pensare al linguaggio giornalistico, alla pubblicità, ai social. Abbiamo messo insieme un gruppo di persone che sapessero interpretare queste tecniche oratorie. Non soltanto attori di professione, ma uomini che hanno una storia raccontare”. I primi due appuntamenti sono stati Homo panormitanus – 20 anni dopo di Daniele Billitteri e Agamennone di Filippo Luna. La rassegna si svolge all’interno dello spazio Tre Navate.
Anche raccontare esige abilità.
“Mettere in fila le parole e darle il giusto peso è un’impresa non da poco. Soprattutto di questi tempi, dove regna il politicamente corretto, non puoi dire troppe cose e devi stare attento a ciò che dici. Davide Enia, ad esempio, racconta gli anni ’80 della mafia partendo da un titolo (Mio padre non ha mai avuto un cane) da cui non si evince che si parlerà proprio di mafia. In questa operazione sarà accompagnato dalle melodie orientali di Giulio Barrocchieri e della sua chitarra turca”.
Abbracciate numerosi generi.
“La caratteristica del Festival è spaziare. Prenda il caso di Ernesto Maria Ponte: è risaputo essere un uomo che utilizza la parola con leggerezza. Con Il poeta in piazza, ci proponiamo di far arrivare al pubblico i versi del poeta Ignazio Buttitta, che ha dato ai siciliani messaggi forti e trasversali. Merita di essere ricordato”.
Non solo attori, ha detto lei. Lello Analfino ne è un esempio.
“In Lello contro Analfino racconta il ragazzo girgentano che diventa cantore. Anche qui lo storytelling è interessante, perché mettersi a nudo non è mai facile. Lello fa questa operazione, da cui emergono tante cose inedite e epopee ‘ntrucciuniate della sua vita. I racconti saranno accompagnati dai canti che ne hanno segnato il percorso artistico. Lello sfida Analfino per ritrovarsi come uomo”.
C’è anche il tema delle donne.
“Lo spettacolo è intitolato Venivamo dal mare ed è interpretato da Lucia Sardo, che racconta il concetto letterario di femina. Femina era la parola utilizzata da Ciullo d’Alcamo in Rosa fresca aulentissima. E’ un vocabolo che non toglie niente alle donne, che va oltre il tempo e racconta del carattere di Sicilia”.
E poi c’è Il lupo e la luna di Pietrangelo Buttafuoco, il 30 dicembre.
“Pietrangelo ha segnato la mia formazione e il mio modo di scrivere. La sua presenza è la misura di questa rassegna. Per raccontare non devi per forza essere un attore o conoscere le arti del teatro. E questo Pietro lo fa con un amore viscerale per la sua terra. Inoltre è dotato di una visione federiciana, perché, come Federico II, nel suo cunto abbraccia anche l’Islam. Buttafuoco racconta Il lupo e la luna in una visione poetica ma anche molto salace. Riesce a rendere la parte sanguigna e quella colta, forbita”.
Poi ci sono Yousif Jaralla, narratore iracheno, con Le mille e una notte, come una stella cadente. Egle Mazzamuto con Elegie di Quartiere e lei, Piparo, con Aedi. Ma sembra che il fil rouge sia la leggerezza.
“Credo sia la via giusta”.
Persino Ficarra e Picone, nella serie Gli incastrati, prossimamente su Netflix, sbeffeggiano la mafia. Anche lei fa parte del cast.
“In qualche modo va esorcizzata questa pena, questo fardello che ci portiamo appresso. Con Ficarra e Picone ho respirato anch’io un modo irriverente di raccontare la mafia. Lo spettatore non si troverà di fronte alla solita solfa. Capirà che non sono i soliti discorsi. Ci sono spunti freschi. E oggi ci vuole freschezza per arrivare ai giovani. Il messaggio rimbalzerà tra loro: rappresentano il nuovo pubblico”.
Abbiamo parlato di Buttafuoco. Qualche anno fa prendeste spunto dal suo libro per portare a teatro la Buttanissima Sicilia. Lo rifarebbe?
“Ci penso sempre. Buttanissima Sicilia mi ha segnato. E’ uno spettacolo che esprime una libertà assoluta e una satira che ormai è scomparsa dalla scena. Ficarra e Picone la fanno al cinema, ma in teatro chi è rimasto? Chi si accolla il rischio di fare satira? Buttafuoco è uno che rompe gli schemi e di questo bisogna dargli atto. Quel libricino giallo rappresenta un’arma da fuoco, perché raccontava i potenti in una maniera leggerissima quanto tagliente. Pensi: c’erano dei politici che, con gli occhiuzzi teneri, ci chiedevano di essere nominati all’interno dello spettacolo. Bene o male, purché se ne parli. L’abbiamo portato allo Stabile di Torino per dieci serate, a Perugia. Tutti hanno apprezzato: non solo la satira, ma anche la musicalità della lingua siciliana”.
Com’è stata l’esperienza con Giuseppe Sottile, direttore di Buttanissima, alla regia?
“Meravigliosa. La sua regia era molto legata al testo e al come dire le parole. Mi frenava, mi dosava. Mi diceva che una pausa qua e là, o un gesto, avrebbe consentito di mettere a fuoco l’arte del dire e del non dire. Che è esattamente il senso della Buttanissima Sicilia. E’ stato un bellissimo lavoro di gruppo. Mi sono divertito come non mai e ho imparato un sacco di cose”.
Non ci ha ancora detto se lo rifarebbe e con quali argomenti…
“Sicuramente mi piacerebbe rimetterlo in scena. I temi non mancano, sono sempre quelli. In Sicilia ci sono dei problemi irrisolti, che andrebbero raccontati con una leggerezza nuova”.
Ad esempio monnezza e burocrazia?
“Perché no? Un bel capitolo sulla sburocratizzazione ci starebbe bene. Sburocratizziamo i gironi infernali della burocrazia. Si potrebbe fare un viaggio dantesco. Anche sulla monnezza, il Sommo poeta – se fosse ancora tra noi – avrebbe parlato di città dolente e fetente”.
Quant’è difficile fare teatro a Palermo?
“Il male di questo comparto, noto come ‘mondo dello spettacolo’, è che la politica lo utilizza a suo uso e consumo, e non per fare cultura. C’è un personaggio di questa città che si è barricato dietro questa parola, ci ha fatto campagna elettorale e ha vinto pure le elezioni. E poi se n’è fregato. La cultura in questa città è stata compromessa. Se ci penso mi sale una rabbia…”.
Ci faccia capire un po’ meglio.
“I cartelloni vengono decisi dalla politica e questo dà l’idea esatta della qualità. Ci sono dei talenti che non riescono a emergere; ai giovani vengono a mancare i punti di riferimento. Hanno idee nuove e magari potrebbero lavorare con delle compagnie più navigate, ma non possono farlo perché c’è un salotto che glielo impedisce. Ecco, credo che il salotto sia la giusta metafora: il fatto che all’interno ci siano figli e figliastri è stato un male. La cultura è diventata una farsa”.
E Palermo capitale della cultura?
“E’ arrivato un esercito di artisti del Nord Europa, ma noi siamo rimasti a guardarli. Non c’è stata una cooperazione. Lì la politica avrebbe dovuto dire: ‘unitevi’. Invece teatranti e danzatori palermitani non sono stati coinvolti. Sono rimasti esclusi da quella vetrina. Eppure le maestranze qua ci sono, e implodono dentro. I talenti si bruciano se non riescono a trovare la loro strada. Così uno che avrebbe talento per diventare un grande attore, magari te lo ritrovi a fare il ladro. O il politico”.
Qualche anno fa ha portato il presepe di Palermo anche a Betlemme.
“Lo racconteremo anche quest’anno. E’ una rilettura di tutti i personaggi della città, cercheremo di fare un’operazione di cronaca e attualità. Quest’anno ci possiamo mettere il ponte Corleone e i pastorelli che adagio adagio, con tutte le limitazioni, lo attraversano. Dovremmo nominare un bue e l’asinello. Io un paio di idee ce le ho, ma me le tengo per me. Al momento sto portando avanti questo viaggio bellissimo che è Aedi. Da gennaio penseremo al presepe”.
E poi c’è Dante.
“Il 27-28 dicembre al teatro Al Massimo racconterò Dante attraverso un controcanto giullaresco. Ha presente il Dante di Benigni? Io sono all’avamposto. Lui fa una sviolinata clamorosa. Io mi sono posto dall’altro lato: ci sono alcune cose che non tornano, e io da siciliano le reclamo. Dante è diventato sì il padre della lingua italiana, ma le basi è venuto a pescarle nella poetica siciliana di Federico II, eppure non ha tenuto conto di Ciullo d’Alcamo… Un controcanto serve”.
Va contro Alighieri?
“Non lo maltratterò più di tanto perché è pur sempre un grande poeta, il Sommo. Ma parleremo di un Dante politico. Fu condannato anche per baratteria, l’attuale concussione. Quindi unn’a canciatu nienti. Poi, dopo aver scritto la Divina Commedia, la Chiesa lo ha riabilitato e i politici c’abbagnarru u panuzzu. Così diventò il manifesto di una nazione. Lei pensi che in paradiso lui ci ha messo tutti gli amici suoi. Già questo la dice lunga”.