Ma sì, vestiamoci in alta uniforme e andiamo tutti sotto il palazzo di San Macuto per rendere omaggio al senatore Nicola Morra, di ortodossa fede a Cinque stelle, eletto a maggioranza presidente della Commissione parlamentare antimafia. Le parole che ha appena pronunciato meritano un picchetto d’onore: “Dobbiamo sconfiggere la mafia. Dovrà essere combattuta ogni illegalità, ogni silenzio, in quanto ciò è terreno fertile per quella pianta schifosa che vogliamo estirpare con tutte le nostre forze”. Così ha detto. Ma chi arriverà primo al traguardo dei cuori grillini, il vice premier Di Maio che è già all’opera per eliminare la povertà o il presidente Morra che, come si vede, si è già posto il sacrosanto obiettivo di sbaragliare in questa legislatura la mafia, con i suoi boss e i suoi picciotti, con le sue collusioni e le sue complicità?
L’unica certezza fino a questo momento è che Morra, 55 anni, ha legato i suoi buoni propositi alle parole sante del giudice Paolo Borsellino che nella tremenda estate del 1992 fu martire, con Giovanni Falcone, delle stragi mafiose decise ed eseguite dai sanguinari corleonesi di Totò Riina. “Dobbiamo far trionfare definitivamente – disse il giudice, pochi giorni prima di morire massacrato da un’autobomba in via D’Amelio – quel fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”.
Anche se Morra ha tutto il diritto di sperarlo, la Commissione che va a presiedere non sembra comunque lo strumento più adatto per piegare l’arroganza delle cosche, per disvelare le collusioni costruite in Sicilia e in Calabria e poi sempre più su, fino al Nord dell’Italia e dell’Europa. Sono cinquantacinque anni che a palazzo San Macuto vive e regna la Suprema Antimafia, con i suoi poteri e i suoi privilegi, con i suoi eccessi e le sue timidezze. Un tempo lunghissimo, oltre mezzo secolo, nel corso del quale sarebbe stato possibile risolvere non solo le questioni legate a una criminalità sempre più estesa e aggressiva, ma pure quell’irredimibile grumo teologico che va sotto il nome di Mysterium iniquitatis e che secondo l’Apostolo delle genti starebbe alla base della malvagità dell’uomo. Invece no. Dopo gli ardori delle prime inchieste e dei primi viaggi in Sicilia, dopo la lucentezza di alcune presidenze – prima fra tutte quella di Gerardo Chiaromonte – improntate sempre e comunque all’affermazione dello stato di diritto contro ogni tentazione emergenziale e inquisitoria, il fuoco dell’antimafia ha finito per consumare ogni slancio e oggi consegna alla storia un bilancio di grettezze politiche, contrabbandate per chissà quale missione sociale.
Per rendersene conto basta girare per i corridoi del palazzo storico, incastrato a Roma tra Montecitorio e il barocco austero della chiesa di Sant’Ignazio. Che cosa resterà delle mille riunioni, dei mille verbali, dei mille e mille documenti accumulati lì, negli archivi di San Macuto, a testimonianza di un lavoro che, nelle intenzioni di deputati e senatori, avrebbe dovuto intimorire i reprobi e incoraggiare la costruzione di una società più onesta e più equa, bella quasi come una città del sole? Niente. Non resterà niente. Perché l’Antimafia è stata trasformata, dopo i primi bagliori, in una sorta di circolo Picwick fondato e frequentato per l’esercizio del moralismo di Stato. Un esercizio improntato all’ardimento muscolare ma sostanzialmente finalizzato a un gioco tanto caro alla politica: il gioco del tribunale parallelo; dove la verità ha sempre due facce, quella che si legge nel documento della maggioranza e quella, spesso diametralmente opposta, che viene estesa e motivata nella relazione di minoranza.
Deve esserci un motivo se Rosy Bindi, che pure ha dominato a San Macuto negli ultimi cinque anni, non ha lasciato alcun segno: ha balbettato sulla massoneria, ha annaspato malamente sullo scandalo dei beni sequestrati, e quando al cospetto dei magnifici cinquanta commissari è comparso il professore Salvatore Lupo per sostenere, con la forza delle sue ricerche, che dopo le stragi del ‘92 lo Stato ha vinto e Cosa Nostra ha perso, lei – la presidente Bindi – ha lasciato che i professionisti dell’antimafia chiodata insorgessero liberamente, con toni chiassosi e insultanti, contro Lupo al solo scopo di difendere il loro vecchio e comodo terreno di caccia.
Ora però al vertice di San Macuto arriva Morra. E con lui lo spirito grillino. Che cosa succederà? Si ricostituirà il circoletto moralista di Rosy Bindi, con i suoi fuochi d’artificio tanto spassosi quanto innocenti, o si tornerà alla stagione affilata e tagliente di Luciano Violante che nella seconda metà degli anni Novanta, da presidente della Commissione, affinò così bene il suo zelo di ex magistrato da trasformare San Macuto in una corte vicaria capace di condurre un’istruttoria preliminare e di fornire alla procura di Palermo, guidata dal suo amico Gian Carlo Caselli, gli elementi necessari per imbastire il processo del secolo: quello contro il potentissimo Giulio Andreotti?
Morra, con tutto il rispetto per la sua laurea in filosofia e per le sue origini calabresi, non è Violante. Né i tempi sono quelli dannati e insanguinati dalle stragi mafiose. Il deputato piemontese era interprete di un’emergenza e all’un tempo portatore di un giustizialismo solido, roccioso, collegato a una rete vastissima e articolata di giudici e magistrati. Morra nasce invece dal vaffa di Beppe Grillo e dalla mistica di onesta-tà-tà, lo slogan che ha consentito al Movimento di avventurarsi sui terreni più scoperti e avventati, dalla criminalizzazione dell’avversario fino all’abbattimento della prescrizione. Con una attrazione, non troppo nascosta, per i processi di piazza, per i processi infiniti. Morra, che è un compassato professore di liceo, farà certamente di tutto per non fiancheggiare da San Macuto simili tentazioni. Ma poiché la politica ha le sue leggi e le sue devianze bisognerà anche mettere nel conto la nascita di una terza via: né circolo Pickwick né corte vicaria, né Rosy Bindi né Luciano Violante; ma un luogo geometrico del dibattito che i cronisti parlamentari potranno chiamare per comodità la “stanza del sospetto”: un piccolo tribunalino dell’inquisizione dove la ricerca della verità, soprattutto nell’emisfero nebbioso della politica, potrà anche implicare un’insinuazione, un ammiccamento, un’allusione, uno sputtanamento. Ai grillini che hanno gridato nelle piazze “onestà, onestà” piacciono tanto queste cose. Farle in nome della lotta alla mafia sarà come sfondare le porte dell’omertà, sarà come disvelare la trama oscura delle complicità. Per boss e picciotti, per corrotti e corruttori la pacchia comunque finirà.