Non poteva che finire così: con lo sputtanamento sulle tv nazionali. L’aumento da 890 euro delle indennità dei deputati regionali, dopo aver suscitato un moto d’indignazione nell’opinione pubblica, è stato la portata principale di alcuni talk show che si abbeverano di urla e populismo. Come è accaduto a ‘Fuori dal Coro’, la trasmissione di Giordano su Rete 4; o a ‘Non è l’Arena’ su La7, dove Giletti, con l’ausilio di alcuni “complici” (da Cateno De Luca a Nuccio Di Paola, referente regionale del M5s) ha passato al setaccio i momenti che hanno preceduto il voto notturno sulla cancellazione del privilegio. Chi c’era, chi non c’era, chi dormiva: è questo il tenore delle discussioni inutili che imbottiscono i palinsesti di nuove colate di fango.
I politici nostrani, anziché sottrarsi, si prestano a questo sudiciume. Dibattono di lana caprina e, se glielo chiedi, possono sempre rispondere di non aver letto fino in fondo la relazione d’accompagnamento al bilancio interno dell’Ars. Perché, durante una sessione complessa come quella finanziaria, è prassi non farlo. Potrebbero guadagnarci un altro sfottò (della serie: non sai cosa voti), ma è l’unico modo per dribblare scomode ammissioni di responsabilità (che non fanno parte di questo mondo). La politica siciliana, come confermano gli accadimenti più recenti, è una casta che genera pochi profitti per i cittadini, ma provvede senza ritegno ad autoalimentare se stessa.
E’ un ragionamento molto ampio, che abbraccia le marchette approvate in Legge di Stabilità, e utili a rifocillare i propri collegi elettorali; così come l’adeguamento Istat, che alcuni deputati non conoscevano fino all’altro ieri, pur essendo previsto da una norma approvata dall’Assemblea nel gennaio 2014. L’avevano fatta, e potevano abrogarla. Invece si sono fermati di fronte al “voto segreto”. Che nonostante la segretezza, li ha fatti venire allo scoperto: la maggior parte di loro non voleva cancellare un bel nulla. Ad ammetterlo – l’hanno fatto in pochissimi – ci avrebbero guadagnato qualche punticino. Invece la storia doveva trascinarsi ad uso e consumo dei Giletti di turno. L’ultima iniziativa dei parlamentari di De Luca, che hanno già sabotato se stessi una prima volta, è di non partecipare ai lavori di Sala d’Ercole finché non sarà messo ai voti un altro disegno di legge abrogativo; mentre molti dei loro colleghi sprecano tempo e carta per annunciare all’Ufficio di Ragioneria la propria rinuncia agli emolumenti aggiuntivi. Su base volontaria non si può.
Il presidente Schifani ha ribadito di essere un parlamentarista convinto e, tirato in ballo sull’adeguamento degli stipendi al costo della vita, si è limitato a una considerazione: “L’aula è sovrana e la rispetto”. Paraculismo allo stato puro. Il suo commento non avrà ricadute sulla maggioranza trasversale che si è formata attorno al provvedimento e, più in generale, alla Finanziaria, approvata in pompa magna grazie alla tecnica dell’inciucio. Nemmeno le pressioni romane di Fratelli d’Italia, che per altro non ha mai sindacato più di tanto sull’utilizzo del denaro pubblico (Cannes e la gestione dei fondi del Turismo gridano vendetta), hanno convinto il governo a opporre resistenza o a prendere le distanze. Nove dei dodici assessori, d’altronde, sono anche deputati.
A Schifani non servirà giustificarsi neppure sull’altro aumento, portato a galla da Repubblica, che riguarda i superburocrati della Regione. Quelli che spesso sono accusati dalla politica di rallentare le sue decisioni (come accaduto all’inizio di questa legislatura in tema di energie rinnovabili). E’ stato proprio l’esecutivo, con una delibera dello scorso 10 febbraio, a rimpinguare del 10 per cento la retribuzione di posizione dei dirigenti generali dei dipartimenti o degli Uffici speciali, stabilendo una scala premiale in base al “peso” dell’incarico ricoperto (e con un tetto massimo di 54 mila euro lordi, in aggiunta al regolare stipendio). Schifani non dovrà giustificarsi perché era stata la Corte dei Conti a contestare l’assenza di regole chiare per stabilire il trattamento accessorio dei burocrati. E questa volta, a differenza di tante altre, la politica ha scelto di seguirla alla lettera.
La nostra classe dirigente, sempre più simile a una casta, ci ha messo un po’ più di tempo a partorire un emendamento (alla Finanziaria) che aumentasse le indennità di sindaci, assessori e presidenti del Consiglio comunale. Con uno stanziamento da 6 milioni proposto dall’assessore agli Enti locali, Andrea Messina, il governo ha deciso di equiparare i loro stipendi a quelli dei colleghi di tutta Italia, che già l’anno scorso, per legge, avevano usufruito dello ‘scatto’. Inizialmente non sembrava orientato a farlo, perché un soldo in più alla politica – a queste latitudini – è sempre sinonimo di scandalo. Ma dopo aver aumentato le proprie, di indennità, è stato impossibile non tener conto delle pretese legittime dell’Ance. Sarà anche una casta di Serie B, ma merita tutte le attenzioni del caso.