E’ morto stanotte all’Istituto Ranchibile di Palermo, don Giuseppe Zammuto. A marzo avrebbe compiuto 99 anni. Durante la sua lunga missione sacerdotale ha formato, amato e ispirato generazioni di allievi. Io ho avuto la fortuna di trascorrere con lui cinque anni della mia vita. Lui era rettore dell’aspirantato salesiano di Pedara, sulle pendici dell’Etna, e io ero uno dei cento, mille ragazzi che sono arrivati lì con la vocazione di diventare preti e poi si sono sparsi nel mondo con una conoscenza in più, con una curiosità in più. Non tutti quelli che hanno studiato nel seminario di Pedara sono ovviamente diventati preti. Ma in quel collegio, sotto il “cielo quadrato” che si scorgeva dal cortile, sono cresciute coscienze forti, laiche o religiose poco importa. Don Zammuto ci artigliava con la sua cultura, con la sua saggezza, con la sua simpatia, col suo magistero. E ci faceva volare in cieli sempre più alti. Oggi mi piace ricordarlo con un articolo scritto qualche anno fa per il mio giornale di appartenenza: il Foglio. (Giuseppe Sottile)
Il giorno che partii per il seminario, parenti e amici mi tributarono l’onore di una prima e indimenticabile processione. La corriera per Catania passava alle nove e mezza e alle sette sotto casa c’era già mio nonno con le redini del mulo in mano: credeva, poveretto, che avrei portato con me chissà quante valige e voleva rendersi utile al trasporto. Sul pianerottolo mia madre piangeva lacrime sincere perché sapeva che mi avrebbe rivisto dopo otto mesi, ma quando le buttai le braccia al collo per il saluto definitivo mi rispose con un sorriso a mezzo labbro, fatto per la metà di pianto e metà di consolazione. Mio padre invece mostrava fierezza: pregustava già il piacere del figlio prete e se, per pagare la retta del collegio c’era da fare qualche sacrificio lui non si sarebbe mai tirato indietro. “Mi levo anche il pane dalla bocca, ma stu’ carusu non merita di finire con i calli alle mani”. E così dicendo mostrava le sue mani grandi e raspose, incordate da vene gonfie e bluastre: mani di chi, per tutta una vita aveva lavorato corda e cuoio per costruire quelle selle per la soma che noi chiamavamo vardeddi e che il maestro della scuola elementare mi aveva insegnato a chiamare basti.
Alla processione che stava per muovere verso la fermata dalla corriera, laggiù al piano di San Calogero, si aggregò pure mastro Vincenzo, il calzolaio della strada lunga che dalla piazza del paese tirava dritta fino alla parrocchia di san Cataldo. E non poteva mancare il parroco, don Carmelo: era stato lui a scrivere la letterina di presentazione al rettore dei salesiani, specificando che nel mio cuore “albergava una sincera vocazione al sacerdozio”; ed era stato lui a inoltrare una supplica a sua eccellenza Francesco Coniglio, assessore regionale alla solidarietà, per chiedere un contributo di integrazione alla retta che, da ottomila lire al mese, scendeva così a sedici mila lire per tre mesi. Quando il corteo, chiamiamolo così, stava per muovere, sentimmo pure il tacco secco della zia Vincenzina, sorella di mio nonno, che correva trafelata sul selciato sbandierando una busta gialla. C’erano mille lire. “Questo non è un regalo”, mi disse stirando per benino la banconota. “E’ solo un anticipo: nel giorno in cui tu diventerai sacerdote e io non ci sarò più, dirai una messa in mio suffragio”. Quelle parole, per mio padre, erano invece l’anticipo della consacrazione sacerdotale: mi guardava con riverenza, come se mi vedesse già ai piedi dell’altare maggiore con il turibolo in mano. E quando salì sull’autobus che, dopo un viaggio di sei ore, ci avrebbe portato a Catania – e da lì a Pedara, ai piedi dell’Etna, dove c’era l’aspirantato salesiano – ringraziò il codazzo con un orgoglioso gesto del capo e un respiro profondo: era come se tutte le grazie del mondo facessero in quel momento corona alla sua felicità; era come se respirasse un inebriante profumo di incenso. Mostrò un lieve segno di commozione solo quando, varcata la soglia dell’istituto, mi consegnò nelle mani di don Mizzi, un confratello di origine maltese, incaricato dai superiori, di accogliere noi ragazzi “eletti dal Signore”, di controllare che la prima retta fosse stata pagata, di guardare dentro la valigia per sincerarsi che su ogni maglietta, su ogni lenzuolo e su ogni paio di mutande fosse cucito un numero di matricola, e di frenare ogni piagnucolosa resistenza dei genitori. “La vocazione di suo figlio è un dono fatto da Gesù a tutta la vostra famiglia”, disse con un tono di conforto. Quindi mi ordinò di salutare papà e mi accompagnò alla camerata del terzo piano, quella intestata a San Domenico Savio e destinata agli studenti di prima, seconda e terza media; ché quelli di quarto e quinto ginnasio, prossimi alla vestizione e al noviziato, albergavano nella camerata del secondo piano, affidata invece alla protezione di Maria Ausiliatrice, auxilium peccatorum e “baluardo contro ogni tentazione”. Per quel giorno – quel primo giorno – avremmo conosciuto solo la camerata, luogo centrale della nostra vita futura: luogo di sogni e rimorsi, di fede e tentazioni.
Lungo quegli stanzoni si snodavano due file frontali di letti, ciascuno con un comodino e un armadietto. Prima di coricarci ci si lavava faccia e piedi, e dopo la preghiera di ringraziamento ci si addormentava con lo sguardo fisso al chierico che, per meglio vegliare sul nostro sonno, andava su e giù fino a tarda notte, recitando il rosario. Ci diceva di essere non un carceriere ma “l’occhio del Signore”, che ci avrebbe guardato anche quando la luce della notte diventava fioca, e che si sarebbe disteso a letto solo dopo essersi sincerato che ciascuno di noi dormisse “abbracciato al proprio angelo custode e non al demonio”. Il nostro chierico – uno studente di teologia ancora non ordinato sacerdote – era don Scucces. Un giovanottone alto e robusto come un gigante, dall’orecchio finissimo, che da dietro il paravento di tela bianca era capace di percepire qualsiasi bisbiglio, qualsiasi sospiro, qualsiasi cigolio; e che ad ogni ora della notte vedevi sgusciare come un furetto e sorprendere chiunque, da solo o in compagnia, venisse sorpreso a compiere un gesto contrario alla “regola”. Quella “regola” scritta da don Bosco, padre dei salesiani, per salvaguardare la vocazione e la purezza dei suoi allievi e per tutelare la grazia dei suoi sacerdoti.
Toccava a don Scucces, padrone delle nostre notti, seguirci amorevolmente nelle ore di ricreazione, o accompagnarci nelle gite del giovedì, o insegnarci le buone maniere al refettorio. Sapeva bene, il nostro chierico, che la gran parte di noi veniva dai paesi e dalle campagne; sapeva che eravamo poveri e che, a parte la vocazione, eravamo finiti lì, nelle angustie della “regola”, per studiare: a quel tempo le scuole superiori si trovano solo nelle grandi città e mantenersi agli studi costava un occhio della testa. Ma don Scucces, così brioso e così complice, riusciva a non farci mai pesare il richiamo rigoroso al galateo. Ci diceva che Dio amava anche i cristiani che mangiavano con le mani o si mettevano le dita nel naso; ma i ministri del Signore, quali noi saremmo diventati, sono destinati a trasformare il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Gesù, ed è per questo mistero così grande – spiegava – che non dobbiamo consentirci una distrazione o una volgarità.
Toccava a don Scucces anche il rito più severo. Ogni tre mesi ci cambiava di posto: nelle aule di studio, al refettorio e, soprattutto, nella camerata. Le sue decisioni apparivano spesso immotivate, ma lui tirava dritto: la “regola” non ammetteva amicizie particolari perché era lì – in quelle che santa Teresa d’Avila aveva chiamato melanconie – che si annidava serpigno il diavolo. Un giorno, eravamo già in terza media, ce ne parlò apertamente. La prese alla larga. Prima si aggrappò ad una lettera di San Paolo, quella ai Corinzi, e ci recitò a memoria un versetto: “Il corpo non è per l’impurità ma per il Signore”; poi pronunciò la parola impronunciabile – omosessualità – e ci spiegò, col volto rosso fiamma e le pupille perfilate di giallo, che “era il più impuro degli atti impuri perché l’attrazione tra un uomo e una donna Dio l’ha creata per ricreare l’uomo, ma l’attrazione tra due uomini o tra due donne serve solo a Satana per scombinare l’ordine del creato”. Detto ciò che andava detto, ci indicò la strada: “Prendete esempio dai nostri superiori, dai sacerdoti che ogni giorno ci guidano nell’insegnamento e nella fede: loro hanno abbracciato Cristo e Cristo è per loro un amore totale che non ammette altri amori”.
I sacerdoti ai quali erano affidate le nostre anime erano timorati da Dio e consacrati di sicuro al celibato. La “regola” di don Bosco, del resto, pretendeva che un salesiano arrivasse al sacramento dell’Ordine dopo avere superato diverse prove. Intanto, dopo il quinto ginnasio, c’era il colloquio con il vicario del vescovo, chiamato a verificare se dietro alla vocazione c’erano ombre e perplessità. Poi c’era la vestizione e il noviziato che spezzava il corso degli studi e che per un anno intero consegnava l’allievo alla preghiera e alla meditazione. Poi, dopo i tre anni di liceo, i chierici entravano nella facoltà teologica e, dopo altri quatto anni di studio, ecco finalmente l’olio santo dell’ordinazione sacerdotale.
Tra i nostri superiori consacrati al celibato c’era innanzitutto don Puleo che nelle ore di scuola ci insegnava la matematica e che, la mattina presto, prima della messa, se ne stava in cappella a disposizione di chiunque volesse confessare, al suo orecchio misericordioso, ogni peccato in parole, pensieri ed opere. Don Puleo era un tipo tracagnotto e po’ trasandato, la sua talare era lisa e, a volte, anche unta. Se ti incontrava nel cortile, durante la ricreazione, ti allungava una carezza ma senza mai sfiorare il viso: l’amorevolezza, se c’era, restava sempre appesa a quella sua mano umida e senza rughe.
Quando entrava nelle aule a parlare di algebra e teoremi di geometria, era austero e intransigente, ma nell’intimità della confessione sminuzzava la maestà del perdono in un dialogo umile e quasi devoto con il peccatore. La prima domanda ti arrivava all’orecchio con tono sereno: “Non è che devi parlarmi di atti impuri?”. Se mostravi esitazione, ti si accostava alla guancia e chiedeva se per caso nella tua testa ci fosse un pensiero fisso: “Non è che pensi spesso a un tuo compagno?”. La confessione si faceva più complicata se il peccatore ammetteva un turbamento, un’inquietudine del corpo, un’insidia dei sensi. “Ma non ti sei toccato, vero?”. A quel punto, la mano di don Puleo si faceva tremante, anche nel tracciare il segno della croce per impartire l’assoluzione.
C’era tra i superiori anche don Ruta, insegnante di francese, che la mattina officiava la messa e poi, a scuola, ci parlava di Voltaire e dell’educazione sentimentale. Ogni tanto si spingeva ai confini di Proust che lui doveva amare tantissimo. Al punto che nei suoi occhi, un po’ miopi, la luce – proustianamente – “fluttuava come un fiore d’acqua”. E c’era pure don Greek, maltese come don Mizzi, che ci insegnava l’inglese e ci leggeva Shakesperare con le movenze di un Amleto incantato dal palcoscenico, oppure ci recitava Wordsworth con la leggiadria di un romantico macerato da un amore proibito: “Fair daffodils, we weep to see you haste away so soon”. E c’era soprattutto don Marinello che per avvicinarci ogni giorno di più a Dio e al sacerdozio, ci trascinava in quel “teatro dell’infinito” che è la musica. Chi ce lo doveva dire a noi studentelli provenienti dalla profonda Sicilia, a noi ragazzini con i piedi incretati, che un prete venuto come noi da quelle terre derelitte ci avrebbe un giorno artigliato come un’aquila e ci avrebbe portato su, nei cieli sconosciuti delle note e delle tonalità, delle armonie e delle dissonanze. Ci costringeva ad ascoltare i classici e ogni due per tre bloccava il disco per spiegarci gli accordi. Ma se qualcuno di noi mostrava indifferenza o, peggio ancora, noia allora don Marinello dava in escandescenze con un’isteria che lo spingeva ad abbracciare, chiamiamoli così, gli infedeli: quelli che non volevano saperne né di Mozart né di Beethoven, e che non volevano più sentire parlare né del sol maggiore “limpido e cristallino come una foglia argentata” né del do maggiore con il quale Haydn, nella creazione, “accompagnò la nascita della luce e dell’universo intero”. Era, quello di don Marinello, un abbraccio passionale. Che mischiava amore e collera, narcisismo e compassione. Le sue mani penetravano nelle nostre schiene fino alle ossa e ci travasavano tutta la sua delusione. Che pena, don Marinello. Nei rari momenti di serenità, tentava pure di spiegarci le ragioni remote delle sue reazioni e finiva puntualmente per implorare pietà come un bambino smarrito nel suo labirinto.
A me però voleva un mondo di bene. In uno dei nostri primi incontri gli avevo confidato che, prima di entrare in seminario, ero andato per alcuni mesi a lezione dal maestro Lapunzina, che oltre a essere il più bravo barbiere del paese, era anche l’anima e il dominus della banda comunale. Con lui avevo imparato a conoscere le note e a muovere i primi passi nel solfeggio. Appreso questo dettaglio, don Marinello non mi mollò più. Una volta la settimana chiedeva al padre prefetto il permesso di prelevarmi dalla scuola e di portarmi con sé nella sala attigua al refettorio per insegnarmi a suonare l’armonium. “Mi sento incarnato in te”, mi ripeteva estasiato. E me lo diceva con una foga crescente e ossessiva che quasi mi impauriva.
Forse non meritava il colpo al cuore che, nell’ottobre successivo, gli avrei inferto. Poco prima che cominciasse il quinto anno, quello destinato a sfociare nella vestizione e nel noviziato, ero tornato a casa per trascorrere i canonici quindici giorni di vacanza. Nelle zolfatare i carusi della mia età non potevano più andare nudi per la miniera: erano comparsi i primi peli e nonostante il caldo, dovevano coprirsi come gli adulti perché erano ‘mpinnati, cioè con le piume. Per tutti i quindici giorni ero andato a servir messa nella parrocchia di don Carmelo. Ma poco prima di ripartire per Pedara, ero andato anche a trovare il barbiere Lapunzina, maestro di musica e solfeggio. Che nel frattempo aveva tirato su – oddio, che meraviglia – la figlia Filomena, detta Fiorina, mia compagna di scuola alle elementari. La ragazzina prima mi guardò incuriosita, poi si lanciò in un abbraccio e persino in un bacio. “Pensami durante le tue preghiere”, mi disse con la malizia della sua età.
Sarà stata colpa del demonio, sarà stata colpa di quel saluto, sta di fatto che arrivai all’inizio del quinto anno con un chiodo fisso: che era un pensiero soave, ma al tempo stesso un’afflizione.
Don Puleo, padre confessore, mi chiedeva come sempre se ero distratto da una qualche amicizia particolare. E io rispondevo onestamente di no. Don Greek notò che ero distratto e ne parlò con don Ruta che, a sua volta, ne accennò al rettore. Il quale mi convocò davanti al prefetto e mi chiese di anticipargli la risposta che da lì a poco avrei dato al vicario del vescovo. La mia vocazione era ancora forte o si era, per così dire, appannata?
Non seppi cosa rispondere e chiesi un supplemento di riflessione.
Furono giorni tremendi. Tornai due o tre volte da don Puleo. Durante le confessioni avvertivo le tribolazioni della mia e della sua carne. Ma sapevo anche che lui era in grado di trovare, nella fede, il balsamo per ogni ferita dello spirito. Quando capì che ero irreparabilmente perduto, richiamò il vangelo di san Giovanni – “La luce taglia le tenebre ma le tenebre non l’afferrano” – e crudelmente spiegò che era inutile forzare la mano. “Il tuo corpo non ha afferrato la luce della vocazione. La fede non ti ha dato la forza di contrastare l’irruenza dei genitali. Arrendersi non è peccato. Se non ti senti di consacrare a Dio la tua mente e il tuo sangue, consacra a lui il tuo seme, la tua famiglia, i tuoi figli”.
C’era di che riflettere. Ma io, a quel punto, volevo solo scappare da Pedara e tornare di corsa al paese e poi fare le scale a quattro a quattro per raggiungere la casa del maestro Lapunzina. Restava solo un però. Con quale coraggio potevo presentarmi al cospetto di mio padre che “si toglieva il pane dalla bocca” e comunicargli che non avrebbe potuto più assaporare il piacere del figlio prete? Sarà stato il diavolo, sarà stato il destino, sta di fatto che dopo due giorni lo vidi comparire nel parlatorio: era venuto a Catania per comprare corda e cuoio per le sue vardeddi e, già che c’era, aveva allungato il passo di sei chilometri fino a Pedara per un saluto al figlio seminarista per giunta prossimo alla vestizione. Lo fulminai con una domanda. “Pa’, ma i preti si maritano?”. Lo sfortunato capì. E raggelò. Mi invitò a fare la valigia, passò dall’economato per pagare la retta residua, mi prese sottobraccio e mi riportò a casa.
Non mi parlò per sei giorni. Al settimo giorno, per spezzare il muro del suo risentimento, gli dissi che avrei continuato a studiare da solo e che avrei cominciato presto a lavorare, magari come manovale, anche per restituire le mille lire alla zia Vincenzina. “E’ morta due mesi fa”, mi comunicò. “Requiem aeternam”.