Chi vota Vannacci? Chi ha perso il valore della parola

Roberto Vannacci, eletto a Bruxelles

Gli invotabili sono una categoria particolare, oggi molto in auge e molto votata. Il macroesempio è Trump, che si dice protetto da Dio per salvare il mondo. Si può votare un tronfio megalomane? Il microsempio è il generale italiano che minaccia di aprire la patta dei pantaloni come atto di gender culture e, dimostratosi maschio in effigie potenziale, vuole dimostrarsi anche bianco affermando con una certa pomposa solennità che Paola Egonu è nera di pelle. Si può votare un uomo dall’intelligenza tanto temeraria? Certo che no.

Eppure questa posizione, questo scontato diniego, deve conquistarsi il suo spazio, la sua credibilità intellettuale e politica, insomma bisogna faticare per un obiettivo in apparenza così ovvio, così facile in teoria da raggiungere. Come mai? Fior di conservatori americani hanno spiegato che Trump non ha a che fare con la cultura conservatrice del Grand Old Party perché è solo un narcisista patologico, un bugiardo, un truffatore seriale, un violento che ha fatto dei repubblicani la grottesca caricatura di sé stessi. Fior di leghisti, tra quelli che hanno maturato un’impostazione politica di governo e di riforma, avevano spiegato per tempo al senatore Salvini che qualche decimale in più alla Lega alle europee sarebbe stato pagato in contanti con la fondazione di un movimento politico autoprodotto e concorrenziale, un esito improduttivo per una candidatura autolesionista. Eppure in grande e in piccolo e a diversissime latitudini, in diversissimi contesti, demagoghi da quattro soldi minacciano itinerari di relativo successo e anche, nel caso americano, veri sconquassi. Come mai?

Alle origini del tutto sta un fenomeno inflattivo che porta alla svalutazione della parola. La parola ha perso peso grammaticale, sintattico, significato in senso lessicale. Le bugie ci sono sempre state e sempre ci saranno, come le esagerazioni, gli inganni, le elusioni e le contraddizioni. Non è questo il punto. Il punto è che mentre celebriamo scioccamente la parola come rifugio culturale, e facciamo della banale retorica letteraria su testi, ipertesti, decostruzioni, eccetera, il lessico contemporaneo ha perso autorità, non ha più gerarchia, è divenuto istintuale e autoriferito, è chiaramente fuori controllo. La conversazione fra Trump e Musk è indicativa: due ore di chiacchiere e contatti e il candidato sostenuto dal creatore della Tesla, una macchinina elettrica, ha subito dopo decapitato la trazione green esaltando la combustione interna a mezzo di combustibili fossili del vecchio modello di automobile. Che senso hanno avuto tutte quelle parole twitterate, in che ordine politico si possono collocare, quale sarebbe la logica del tutto?

La parola, da costruttiva che era, quando su di essa per esempio si fondava un blocco di interessi o un’alleanza elettorale, e si calibravano proposte, programmi, traguardi indicati ai cittadini, è diventata un grimaldello, un piede di porco, uno strumento di rapina dell’intelligenza e della fiducia degli elettori, distruzione pura. Gli invotabili diventano votabili perché la parola non conta, non organizza non si dica il pensiero ma nemmeno una testimonianza credibile, non fa parte di un repertorio, di un thesaurus, che può essere il nucleo medievale di un’enciclopedia dei significati o una banca dati del mondo digitale. Rose is a rose is a rose is a rose: è un verso di introspezione cerebrale e poetica di Gertrude Stein, del 1913. Bisognerebbe con semplicità ripartire di lì, e si vedrebbe che il problema non sono i social, il suono e l’immagine della parola diffusa, ma la perdita di peso della parola stessa. Gli invotabili, quelli che dicono il nulla, sono gli indicibili.

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Giuliano Ferrara per Il Foglio :

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