“Sindaco: s.m. (pl – ci), capo dell’amministrazione di un comune…”. Il vecchio Garzanti ingiallito che ho consultato per una vita non ha dubbi. Sindaco è “s.m.”, sostantivo maschile. Senza appello. Lo stesso vale per ministro. S.m. “Per indicare donna che svolge funzioni di ministro, si preferisce la stessa forma del maschile; molto meno usato, e per lo più scherzoso o spregiativo, ministressa”. Sono andata a riconsultarlo dopo l’ennesima volta che leggo “la sindaca”, “la ministra”… e via dicendo. Che mi suona male, malissimo. E non è solo una questione linguistica. È anche cacofonico, ma non solo.
Mi suona male perché – per prime le donne – abbiamo delegato a una coniugazione al femminile la rivendicazione dei diritti, abbiamo lasciato a una A piazzata al posto della O l’affermazione della femminilità. E soprattutto perché in questa corsa ai diritti ci siamo scavate la fossa, chiedendo a viva voce un’eguaglianza che non esiste. Perché uomini e donne sono diversi, inutile negarlo. Diversi non significa meglio o peggio, significa con prerogative diverse, con qualità diverse, con caratteristiche diverse. Perché negarlo?
È finita che a forza di mostrare le tette in piazza non sappiamo più fare le donne, che con le quote rosa abbiamo chiesto una sorta di corsia preferenziale come a certificare l’incapacità di farcela da sole. Ci siamo scordate quanto possa essere gentile lasciare che un uomo ceda il passo, in nome di una parità che non può essere relegata a questo. Parità è non essere penalizzate dalla maternità, non lasciare che sia un uomo a portare su la cassetta dell’acqua. Che pesa, e loro hanno braccia più robuste. Noi invece abbiamo i tacchi!