“Sembra lo Spasimo”, si sente ripetere a Palermo su Notre Dame scoperchiata dall’incendio. Notre Dame sarà comunque ricostruita con la vagonata di milioni che sta arrivando dal cuore compassionevole del mondo ricco, e forse poco importa se in cinque anni come promette Macron, che è un politico, o in cinquanta, come prevedono le più Cassandre tra gli esperti: comunque sarà ricostruita. Lo Spasimo no, probabilmente è bello così com’è, con il sommacco che si staglia verso la vetta dell’antica chiesa (c’è ancora il sommacco? è un po’ che non vado) ma è stato uno dei simboli di quella che un mio illuminato caporedattore, Mario Genco, chiamava «l’estetica del rudere» nella cui lista era iscritto anche il Teatro Garibaldi, e qualche altro sito ripescato sì dal degrado, ritornato sì a pubblica fruizione, destinato sì a una qualche attività artistica (musicale, teatrale, convegnistica) ma pur sempre «rudere», rabberciato anche bene, con un certo criterio architettonico, con belle firme che avevano progettato il percorso bagno-bouvette – ma con la sua cicatrice ancora in vista perché si potesse replicare ogni volta una sorta di «estasi», far echeggiare un rapito «ooohhh» di meraviglia, starsene col nasino all’insù immaginando quella volta che c’era una volta o come doveva esser bello quel sipario sull’arco scenico garibaldino.
La nostalgia dell’«estetica del rudere» si ripropone adesso con il Teatro Bellini (secondo teatro storico della città dopo il Santa Cecilia, anche questo – e senza “ruderismi” – recuperato) di cui giunge notizia che diventerà un museo con qualche imbellettamento (alla bell’e meglio, forse, perché di soldi non ce n’è granchè) grazie alla Cooperativa Terradamare, meritoria compagine che sta facendo conoscere a frotte di curiosi autoctoni e turisti la Torre di San Nicolò e il Carmine Maggiore, due autentiche bellezze dell’Albergheria/Ballarò. La cooperativa, che è a vocazione turistica, lo riaprirà domani perché possa «ospitare visite guidate, mostre, convegni, laboratori d’arte, rassegne, un infopoint turistico e, presto, anche spettacoli». E su questi ultimi la notizia puntualizza: «Il ritorno all’attività teatrale avverrà gradualmente. Nei prossimi mesi infatti Terradamare, con Carla Lo Bianco e Leandro Tripodi (direttore di produzione insieme a Eleonora Lo Iacono della cooperativa turistica), aprirà delle call, valutando i progetti delle varie compagnie che si presenteranno. La differenza la farà chi sarà in grado di presentare un progetto in grado di raccontare Palermo, tra punti di forza, peculiarità e differenze».
Un indirizzo preciso, dunque, anzi precisissimo, chi vuole potrà raccontare Palermo, cosa poi siano «punti di forza, peculiarità e differenze» sui quali dovrebbe impignolarsi la valutazione della cooperativa si dovrà capire. Pare comunque di capire anche, da siffatte prerogative, che Beckett – per citarne uno – sia tagliato fuori.
Il Bellini riapparve alla vista di noi contemporanei all’alba del nuovo secolo – dopo il tragico incendio che ne segnò le sorti agli inizi degli anni Sessanta associandolo anche fisicamente all’omonima pizzeria, roba che altrove avrebbero innalzato barricate – alla luce di un fortunato delirio carrigliesco, ovvero un disegno di Pietro Carriglio, allora direttore del Teatro Biondo, che ne fece la «seconda casa» dello Stabile, battezzandolo con uno strepitoso Candelaio riletto da Ronconi, cinque ore di meraviglia scenica compreso intervallo-buffet. Seguirono stagioni parallele a quelle principali della casa-madre di via Roma, poi Roberto Alajmo lo chiuse perché, si disse, costava troppo ed erano già tempi di tagli.
Adesso il ritorno, sotto forma di museo e tanto altro, poi, «presto», anche sotto forma di teatro, con i «vincoli» tematico-artistici di cui sopra. Non è per inimicizia alla contentezza se qualche dubbio però si insinua. Sulla destinazione d’uso, per carità, non certo per l’iniziativa di far quantomeno arieggiare quella platea vuota di poltrone, quei palchi semiagibili, quel palcoscenico silenzioso, quel monumento, insomma, che fu non solo il Regio Teatro Carolino dei Borboni ma che fu anche la sede del primo teatro di vocazione moderna della città, delle prime regie d’autore, delle prime ardite sperimentazioni drammaturgiche negli ormai lontani anni Cinquanta. Il timore è che un giorno, visitando il museo, qualcuno, immemore, possa commentare: «Che bel museo, sembra un teatro».