C’era una volta Forza Italia

Foto di gruppo al Meeting del Buongoverno di Taormina: ci sono anche Marco Falcone, Antonio Tajani e Renato Schifani

Forza Italia, oggi, non è più la stessa. Con l’ingresso di Caterina Chinnici e la messa al bando di Totò Cuffaro per le prossime Europee, ha smarrito persino la connotazione garantista conquistata, con ardore e rumore, da Silvio Berlusconi. Ora che il Cav. non c’è più, le figlie di Rocco Chinnici e Carlo Alberto Dalla Chiesa, immemori di abitare in un partito co-fondato da Marcello Dell’Utri, si permettono di catalogare i voti (definendo “inquinati” quelli della DC) senza che nessuno dei big abbia da obiettare. Ma più in generale, e al netto della ‘questione morale’, non si capisce letteralmente FI a cosa serva. Quale valore aggiunto porti al governo e al Paese la sua presenza invisibile.

L’appiattimento su Fratelli d’Italia, un dato evidente contestato solo da qualche temerario, offre tutti i giorni la visione di un partito senz’anima, che sebbene in Sicilia sia riuscito a staccare 10 mila tessere, non sa ancora a quale destino andare incontro. I congressi provinciali che verranno inaugurati la settimana prossima, ancorché rilanciare il principio della democrazia su cui si regge la maggior parte delle formazioni politiche del Paese, potrebbe legittimare e certificare il rammarico per un leader che non c’è più e che non esisterà più allo stesso modo. Tajani, a fine febbraio, verrà incoronato segretario nazionale sotto lo sguardo semi indifferente dei vertici Fininvest, che finora hanno evitato tagli drastici alle finanze.

Non che il vicepresidente del Consiglio, in questo primo anno di legislatura, abbia brillato particolarmente. Merita di essere letta una riflessione di Davide Faraone, presidente dei deputati di Italia Viva, il partito di Renzi che da qualche tempo cerca di attrarre consenso tra i forzisti più svampiti: “Antonio Tajani – scrive Faraone sui social – ha dichiarato che con Forza Italia il governo Meloni non potrà mai aumentare le tasse. Ed in effetti – dice ironico l’ex sottosegretario – fino ad ora il Governo ha accresciuto soltanto l’IVA sui prodotti per l’infanzia e sui prodotti di igiene intima femminile, la cedolare sugli affitti brevi, la tassa sulle plusvalenze degli immobili ristrutturati, le ritenute sui bonifici edilizi, le ritenute sui professionisti per interventi edilizi, le tasse sugli immobili all’estero, le tasse sui lavoratori transfrontalieri e infine ha eliminato il taglio sulle accise sulla benzina introdotto da Mario Draghi. Tutto questo grazie a Tajani e al suo partito. Per il bene del Paese suggerirei a Forza Italia un po’ di riposo, basta con tutto questo impegno”.

Insomma, è venuto anche il partito che, a ogni campagna elettorale (persino l’ultima, con Berlusconi già traballante) professava lo slogan “meno tasse”. E ad onor del vero, insieme a Silvio, è venuto meno l’impegno (dichiarato) per il Mezzogiorno (sempre che si eviti la “trappola” del Ponte: non è questo l’impegno richiesto da Sicilia, Calabria e tutti gli altri). Con l’ultima operazione assestata da Salvini, che dal Cav. ha ereditato la passione per il collegamento stabile dello Stretto e la Stretto di Messina Spa, alla Sicilia sono stati “rapinati” 1,3 miliardi di Fondi di Sviluppo e Coesione (Fsc), che verranno utilizzati per il Ponte (una forzatura rispetto al mancato impegno della Regione) anziché per altre infrastrutture. Forza Italia non ha mosso un dito: soltanto Schifani si è agitato, parlando di “conflitto istituzionale”, prima di ripiegare sul sempre utile “errore di comunicazione” che ha salvato le apparenze col Ministro delle Infrastrutture.

Per il resto FI è un partito assente, a tratti avulso, che però ha deciso di impegnarsi nella celebrazione dei congressi provinciali e locali. Dieci anni dopo. Schifani, in questa prima fase da governatore, dopo aver scalzato Gianfranco Micciché, si è dedicato al suo partito, scegliendo la guida autorevole (sic!) del suo ventriloquo e capo di gabinetto: Marcello Caruso. Ecco: Caruso rimarrà al suo posto, mentre sui territori andranno tutti (o quasi) gli uomini del presidente: per Palermo si fa il nome di Pietro Alongi, da poco subentrato in giunta al neo patriota Andrea Mineo; a Trapani quello di Toni Scilla, già fedelissimo di Micciché (come Mancuso a Caltanissetta); ad Agrigento troveranno un accordo La Rocca Ruvolo e Gallo Afflitto (vicino a Dell’Utri); a Enna è favorita Luisa Lantieri. Altrove la situazione è più complessa: a Catania innanzi tutto, dove Schifani deve scendere a patti con la corrente di Marco Falcone, che fa capo a Tajani e Gasparri, ispiratore dello slogan “il partito non è un autobus” che ha chiuso a Totò Cuffaro le porte del parlamento europeo (ma c’è sempre la ciambella di salvataggio Nicola D’Agostino).

La vera sfida, anche in prospettiva, è tra Schifani e Falcone, con Tamajo – il ras di Mondello – che giocherà un ruolo da protagonista. Ma al momento non cambia la sostanza. Forza Italia ha indietreggiato e lasciato il comando delle operazioni agli alleati: a Fratelli d’Italia sul Turismo e i Beni culturali (oltre alla possibilità di farsi la legge sugli “ineleggibili” e sperimentare sanatorie d’ogni tipo); alla Dc sugli enti locali e sul ritorno del voto per le provinciali; le Politiche agricole sono appannaggio del leghista Sammartino; solo in materia d’imprese e Sviluppo Tamajo ha carta bianca. In generale non c’è un indirizzo che possa qualificare l’operato degli azzurri all’Ars e nell’Isola.

Schifani è ancora troppo legato alle prepotenze dei patrioti, che gli dettano i tempi sui dossier più importanti (come le nomine della sanità); agli umori di Cuffaro e Lombardo, che godono di un blocco quasi immutato di potere; alla stima diffusa (dell’aula di Sala d’Ercole) per Falcone, che è riuscito a confezionare la Finanziaria in tempi celeri. Non c’è un dettaglio per distinguere Forza Italia dal resto. Una riforma (sia mai) o un’iniziativa (Aricò, di FdI, porta la bandiera sul tema del caro voli e del caro treni) che sia riconducibile a uno dei gruppi parlamentari più numerosi. In questa legislatura non c’è alcun segnale del passaggio “azzurro”, tranne che per i singoli interventi a cascata sui territori, figli di un accordicchio bipartisan sulle mance. Ma questa è un’altra storia.

Dai congressi della settimana prossima, fino a quello nazionale che consacrerà Tajani, non c’è da attendersi passi avanti. Il partito che fu di Berlusconi non dà segni di vitalità, anche se Schifani continua a reclamare spazio a livello nazionale – per sé, ovviamente – sulla base dei recenti risultati elettorali: circa il 15% alle Regionali (ma molto meno bene alle ultime Amministrative). Per capire quanto vale Forza Italia, e se Schifani può aspirare al ruolo di coordinatore per il Mezzogiorno, bisognerà attendere le urne; per capire effettivamente a cosa serve, basterebbe rileggersi l’analisi di Faraone e applicarla sommariamente alla Sicilia.

Ps: FI poteva essere il perfetto anello di congiunzione col governo nazionale, ma anche il rapporto con Meloni e soci (vedi il caso degli incendi) sono ai minimi termini. Insomma, niente di niente.

Alberto Paternò :

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