Meno male che in questa Palermo afflitta dalla sete e dall’arsura ci sono i teatranti che, con l’ironia, rivestono di umanità ogni tragedia. “Moriremo con le labbra spappolate dall’arsura, ma moriremo abbronzati”, declama Salvo Carabillò, confuso tra gli attori del Politeama. E il riferimento è al sole che da cinque mesi fiammeggia ininterrottamente, con amore e crudeltà, ogni tetto e ogni strada: le cupole maiolicate di San Giuseppe dei Teatini e le lenzuola azolate appesi ai balconi della Kalsa, i labirinti di Ballarò e i giardini pensili di quella che, nel secolo degli arabi e dei normanni, fu la città delle fontane e dei gelsomini: “Vuote le mani, ma pieni gli occhi del ricordo di lei”, annotavano i poeti incantati dalle palme che circondavano il Palazzo Reale, da venti “morbidi e seducenti” che spiravano sul Castello di Maredolce, e dagli scogli che rendevano “quietoso e balsamico” il mare dell’Acquasanta.
Tutto, a quel tempo, parlava di acqua e di frescura, di “piogge leggiadre” e di “capricci barocchi”. Ma l’invincibile estate del 2024, unita agli scempi degli anni passati, ha cancellato tutto. Le fontane che accompagnavano con sfarzo il viale d’accesso al castello della Zisa – A Ziz, in arabo: la bella – sono sommerse dall’incuria e dall’immondizia. Maredolce si erge su una terra brulla, asfissiata dalle sterpaglie. Mentre l’Acquasanta è tra i quartieri, – come Pallavicino, Sperone, Bandita e altre sventurate periferie – che pagheranno il prezzo più iniquo e beffardo alla siccità.
E sì, perché il razionamento, che ufficialmente è scattato ieri, risparmia il centro storico e i quartieri alti della città. Ma condanna tutti gli altri al gioco perverso della penuria. Gli sfortunati avranno l’acqua a giorni alterni. E per una città di quasi un milione di abitanti non sarà certamente una passeggiata. Ci si può consolare, come sostiene il maestro di scena Carabillò, con l’abbronzatura. O con la considerazione che da queste parti, per grazia di Dio, non s’è vista e non si vede traccia delle alluvioni che martirizzano le regioni del Nord. Oppure col fatto che altre città di questa infelicissima Sicilia soffrono ancora di più. Maledettamente di più. Si pensi, alla costa meridionale, ad Agrigento o a Licata: lì i rubinetti si aprono, sì e no, una volta la settimana e la gente vive inseguendo con i bidoni le autobotti messe a disposizione, con carità burocratica, dai comuni. Ancora peggio la situazione di Enna e Caltanissetta: per bere o cucinare si ricorre all’acqua delle bottiglie comprate al supermercato; ma è diventato un problema farsi una doccia o lavare i piatti e la biancheria. Per non parlare delle campagne ormai condannate alla desertificazione, o degli allevatori che non sanno più dove abbeverare gli animali e si vedono costretti a una macellazione obbligatoria dei capi che non hanno né acqua né verdi prati sui quali pascolare. I pozzi non bastano più. E le processioni alla Madonna delle Grazie riempiono di fede i cuori dei fedeli ma lasciano a secco le sorgenti.
Sembra un flagello biblico. Il lago di Pergusa, le cui acque di colore rosa hanno incantato Ovidio e i viandanti che si spingevano nella terra di Proserpina, si è ridotto a una poltiglia irriconoscibile di fango. E il Simeto, il fiume che dalle Madonie raggiunge le falde dell’Etna, difficilmente riesce a sfociare nel golfo di Catania perché la poca acqua che ancora trasporta viene puntualmente dirottata nella piana, tra Paternò e Palagonia, per non fare morire gli aranceti.
Povera Palermo. Il fiumiciattolo che la attraversa – l’Oreto – è un serpentone maleodorante che la città non ha mai considerato: l’inciviltà degli abitanti lo ha trasformato in una discarica di copertoni, ferri vecchi e altre nefandezze. I pozzi privati, quelli che raccolgono l’acqua della Conca d’Oro, sono chiusi a chiave da proprietari terrieri, o dai boss mafiosi che ci hanno costruito sopra una speculazione difficile da smontare. A occhio e croce non resta che sperare nella pioggia. Ma quando arriverà? Il meteo non dà conforto. Però senza troppe illusioni, spiegano gli esperti: anche se piovesse domani e per un mese intero, la siccità non potrebbe dirsi finita. Perché l’acqua del cielo verrebbe quasi tutta assorbita da terre eccessivamente aride e perciò insaziabili.
Sembrerà paradossale, ma la città “reggia e conventuale” che tanto inorgogliva Don Fabrizio, il principe del Gattopardo, non ha più un santo a cui votarsi. Certo, “le masse assetate” – ormai le chiamano così – protestano, scendono in piazza, approntano striscioni, montano palchetti per i comizi e sit-in sotto Palazzo d’Orleans, sede del governo regionale. Ma chi le ascolta? Il presidente della Regione, Renato Schifani, accolla le colpe delle inadempienze al suo predecessore: quel Nello Musumeci che ora è ministro della Protezione civile. Il quale – solito teatrino della politica – ribalta le accuse sul medesimo Schifani. Poi tutti e due si passano la mano sulla coscienza e distribuiscono soldi a destra e a manca: agli allevatori per comprare il fieno che non si trova e agli agricoltori che hanno perso una buona parte del raccolto.
La verità è che nessuno sa che cosa fare. All’inizio dell’estate, quando già le dighe avevano ridotto ai minimi termini le riserve, il governatore Schifani ha istituito una pomposa e altisonante “cabina di regia”, con professoroni ed esperti di ogni genere e qualità. Poi ha chiesto a Palazzo Chigi i “poteri speciali” per riattivare i dissalatori di Gela, Trapani e Porto Empedocle spenti una decina di anni fa e già aggrediti dalla ruggine. Un’operazione costosissima. Come quella, annunciata a fine luglio e subito cancellata, di rifornire Agrigento e i comuni più assetati con una nave cisterna della Marina militare. Ma, nonostante gli esercizi di politica muscolare, le dighe sono quasi pietrificate e i rivoli d’acqua, che ancora vengono fuori da quegli invasi, si disperdono in buona parte lungo una rete di distribuzione abbandonata da anni, malcurata e sforacchiata come un colabrodo.
Per la verità, sulla rete, sui dissalatori e anche sulla ricerca di nuovi pozzi il governatore della Sicilia avrebbe potuto intervenire fin dall’estate del 2023 quando il disastro già si delineava all’orizzonte. Ma ha preferito dedicarsi ad altre attività, certamente più appaganti sia sul piano politico che sul piano personale: a cominciare dalle nomine di sottogoverno, la specialità sulla quale non sbaglia un colpo: riesce ad assegnare incarichi persino alle amiche che gli organizzano le cene. Ma guai a criticarlo. La settimana scorsa, quando Davide Faraone, ha denunciato pubblicamente errori ed omissioni della Regione sulla gestione dell’emergenza, Schifani è andato su tutte le furie e, anziché affrontare il problema che ogni giorno mette in difficoltà ben oltre la metà delle famiglie siciliane, ha chiesto ufficialmente al sindaco di Palermo, Roberto Lagalla, di estromettere dalla giunta municipale, i reprobi renziani ancora legati all’eretico Faraone. Una ritorsione. Che ovviamente ha gettato nel panico Lagalla, finito senza alcuna colpa tra l’incudine e il martello: se tiene dentro i renziani, la maggioranza del Comune non potrà più contare sui consiglieri di Forza Italia, il partito che, manco a dirlo, è retto in Sicilia da Marcello Caruso, segretario privato del permaloso e offesissimo Schifani; ma se rinnega Faraone e rifiuta l’appoggio di Italia Viva, l’amministrazione va a carte quarantotto. “La città è senz’acqua, ma il sindaco è con l’acqua alla gola”, commentava ieri sera l’attore di strada Salvo Carabillò. Uno sberleffo? Per i guitti e i teatranti della Palermo che, nel suo siglo de oro, fu “felice e arabeggiante” si aprono spazi che vanno oltre il palcoscenico. L’ironia ci salverà.