E’ l’anno dei centenari. La Marcia su Roma, l’ascesa al potere di Benito Mussolini, presidente del Consiglio del Regno d’Italia dal 31 ottobre 1922, l’inizio del Ventennio che tanto danno procurò all’Italia. Coincidenze, certo. Ma anche generi di conforto per la sinistra in campo. Tanto autoreferenziale da dare e darsi la patente di “migliore”, mentre guarda il dito puntato sui fantasmi del passato secondo l’assioma dell’eterno ritorno del fascismo d’assalto in Italia. Possibile, certo. Ma tanto dibattuto ora da renderlo luogo comune, stereotipo.
E’ l’anno del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, mentre non si è ancora spenta l’eco delle celebrazioni per Leonardo Sciascia, nato un anno prima di Pasolini. Coincidenza anche questa. Ma pure occasione per riappropriarsi degli autori della “migliore” stagione della letteratura civile italiana, quella sbocciata nella seconda metà del Novecento. Autori capaci di essere coscienza critica della società come nessuno dopo ha saputo fare.
A Racalmuto, alla Fondazione Sciascia, se n’è parlato per due giorni durante il convegno curato da Antonio Di Grado: “Cent’anni di solitudine, la generazione (1921 – ’25) di Sciascia e Pasolini”. Generazione allargata a donne e uomini che hanno segnato la storia del paese e hanno animato il dibattito intellettuale di quegli anni, come Italo Calvino, Maria Callas, Francesco Rosi, Damiano Damiani, Emanuele Macaluso, Enrico Berlinguer, Franco Basaglia, Danilo Dolci, Lorenzo Milani, Goliarda Sapienza, Cristina Campo, Mario Pomilio.
Certo, con lo sguardo rivolto a loro, emerge quanto sia desolante la nostra solitudine in un momento in cui il discorso pubblico si costruisce sui social. Ed è lo scontro sui rave, la polemica infinita sugli obblighi vaccinali, ovviamente previa firma “volontaria” di consenso informato, lo sfacciato e umiliante “Grazie George!” twittato da un partitino europeista per rivendicare, una volta che erano stati già scoperti, i finanziamenti elettorali ottenuti in nome di comuni “battaglie sui diritti umani e civili, la democrazia e lo stato di diritto” dal banchiere Soros. Il quale è ricco sfondato. E sarà anche “filantropo”, gli tocca in quanto americano. Ma non ha quel che si dice un curriculum specchiato. Anzi. La speculazione che attuò sulla lira nel 1992 ancora ci duole.
Ci mancano Pasolini e Sciascia, in questo contesto. Il loro coraggio nella ricerca della verità mentre il dibattito pubblico non si schioda dalle categorie del fascismo, antifascismo, postfascismo o addirittura “prefascismo”, come annuncia Adriano Sofri che è esperto in materia.
“Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario” affermava Pasolini. Ecco, forse bisognerebbe rileggere i suoi testi su “Il fascismo degli antifascisti” e gli altri “Scritti corsari” intorno al fascismo, alla sua genesi, alla matrice provinciale da Italietta con le pezze al culo, alle sue evoluzioni politiche e culturali. Sono articoli pubblicati in prevalenza dal Corriere della Sera tra il settembre 1962 e il febbraio 1975. Articoli in cui c’è dentro tutto.
C’è l’Italia di oggi, che si dibatte tra sovranismi ruspanti (in senso alimentare, va da sé) e tecnocrazie “democratiche e progressiste” ossessionate dal controllo sociale, che sia l’uso del contante o le mascherine. Con una sinistra smorta e un po’ troppo scudocrociata asserragliata sui colli di Roma, nelle Ztl dei centri storici o nel recinto dorato tra Capalbio e Cortina. Un vivere “nel mondo della pseudo-cultura o, come dice più esplicitamente la mia amica Elsa Morante, dell’irrealtà” che Pier Paolo Pasolini osserva e descrive con largo anticipo.
Da corsaro qual era, negli articoli Pasolini individua le tipologie del fascismo. Quello tradizionale e “archeologico” visto da giovane, sperimentato sulla propria pelle. Proprio quello evocato e paventato oggi. Con il caso Meloni. Che è donna, madre, cristiana ma “in campo lungo”, come si dice in fotografia. Con la sua destrezza dichiarata, politica e programmatica. Con il record di essere la prima donna presidente del Consiglio nella storia italiana. Una di destra. Uno schiaffo in faccia alla sinistra ancorata alla polemica sull’uso dell’articolo determinativo maschile o femminile secondo i canoni del politicamente corretto.
Pasolini soprattutto mette in guardia dal nuovo fascismo, quello della “prepotenza del potere” proprio del liberismo senza freni. Che è “capace di modificare il paese ancora più profondamente di quanto non sia riuscito di fare al regime mussoliniano”, come segnala la nota al testo nella bella edizione pubblicata da Garzanti nel 2018.
Con una sottolineatura pasoliniana “sul fascismo come normalità, come codificazione del fondo brutalmente egoista di una società”. Un fascismo che nasce dal sistema dei consumi responsabile dell’omologazione culturale del paese. Potere senza orbace ed elementi distintivi. Camaleontico ed eterodiretto. Quindi più subdolo e insidioso, più capace di plasmare vite e coscienze. Un fascismo che si atteggia ad antifascismo ma è in sostanza “complicità con la manipolazione artificiale delle idee”.
In un notte di novembre del 1975 Pier Paolo Pasolini venne ucciso in quel porto delle nebbie e del degrado che era ed è l’Idroscalo di Ostia. Una morte così violenta e brutale, così carica di misteri ancora irrisolti, da farne ancora oggi un simbolo di scomode e sommerse verità.
Secondo la testimonianza della figlia minore Anna Maria, Leonardo Sciascia quando seppe della morte di Pasolini “scoppiò in un pianto a dirotto, mai visto prima”. Erano amici, come dimostra anche il carteggio e gli articoli di Sciascia su Pasolini e di Pasolini su Sciascia esposti alla Fondazione Sciascia di Racalmuto a cura del nipote Vito Catalano e di Edith Cutaia. “Abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose”, scrisse Sciascia sul quotidiano L’Ora all’indomani dell’assassinio di Pasolini in un articolo esposto in originale a Racalmuto e poi pubblicato anche nella raccolta “Nero su nero”.
Nel testo, come in un gioco di incastri e di rimandi, Sciascia ricorda le tre colonne sul giornale La libertà con cui nel 1951 Pasolini aveva recensito, tra i primi in Italia, “Le favole della dittatura”, esordio letterario di Sciascia. E scrive Sciascia che già allora Pasolini parlava di lui come “sapendo quello che avrei scritto dopo”.
Da quel momento e nei dieci anni che seguirono “ci scrivevamo assiduamente e ogni tanto ci incontravamo. Poi la nostra corrispondenza si diradò, i nostri incontri divennero rari e casuali. Ma io mi sentivo sempre un suo amico: e credo che anche lui nei miei riguardi. C’era, però, come un’ombra tra noi, ed era l’ombra di un malinteso. Credo che mi ritenesse alquanto – come dire? – razzista nei riguardi dell’omosessualità. E forse era vero, e forse è vero: ma non al punto da non stare dalla parte di Gide contro Claudel, dalla parte di Pier Paolo Pasolini contro gli ipocriti, i corrotti e cretini che gliene facevano accusa”.
E sulla morte di Pasolini, Leonardo trae le sue conclusioni: “quale che siano i motivi per cui è stato ucciso, quali che siano i sordidi e torbidi particolari che verranno fuori io la vedo come una tragica testimonianza di verità”. La verità della scrittura. Nera scrittura sulla nera pagina della realtà.
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Nella foto Pier Paolo Pasolini