Dietro la rielezione di Sergio Mattarella al Colle non c’è alcuna ‘manina’ democristiana. Tanto meno la determinante influenza che qualcuno vanta dalle parti del “grande centro”, una galassia ancora inesplorata. A fare chiarezza sulle giornate del Romanzo Quirinale è Totò Cardinale, già esponente della Democrazia Cristiana, che ha seguito le vicende da molto vicino: “Qualunque soluzione diversa da Mattarella – esordisce l’ex Ministro delle Comunicazioni – avrebbe determinato una condizione d’indebolimento per il Paese. Ma dire che l’esito cui si è pervenuti sabato scorso sia stato il frutto di una “manovra”, è cosa lontana dalla verità e non rende il giusto merito alla sensibilità del Parlamento”.  Cardinale, nel suo piccolo, ha dato il proprio contributo: “Ho suggerito a mia figlia Daniela e ai suoi amici del gruppo Misto di votare Mattarella sin dalle prime battute. Per lanciare un segnale”. Un segnale che è divenuto “sempre più forte. Così il presidente è stato eletto “a furor di grandi elettori”. Un evento anticipato dall’acclamazione che la Scala di Milano gli ha rivolto”.

Perché, secondo lei?

“Perché è stato un ottimo presidente. Ha saputo reggere il timone con intelligenza, fermezza e sapienza in momenti in cui il mare era burrascoso”.

Non c’è nessuna ossatura democristiana dietro questa elezione? Qualcuno ci ha intravisto un asse fra Enrico Letta, Matteo Renzi, i cespugli centristi…

“Escludo ci fosse una regia. Questi post-democristiani si sono manifestati solo all’ultimo. Fino a quel momento sostenevano Casini”.

Poi cos’è accaduto?

“Che sono andati a sbattere. Poi, accorgendosi di non avere una soluzione, sono corsi da Mattarella. Se ci fossero andati prima per dirgli “abbiamo scelto te”, li avrebbe invitati a desistere, ritenendo che non fosse corretto replicare lo stesso Presidente. Ci sono poi arrivati in una condizione di stremo totale. Non sapendo più che pesci prendere, e dopo aver bruciato un’infinità di nomi. Mattarella era l’ultima opportunità per mettere insieme i tanti che, pur stando nello stesso governo, avevano opinioni diverse. Anche Berlusconi si è convinto solo all’ultimo”.

A differenza dei leader, il parlamento aveva già espresso un proprio orientamento: 125 preferenze alla terza votazione, 166 alla quarta. E così via.

“Credo che l’elezione di Mattarella fosse nella testa, nel cuore, finanche nella pancia della gran parte dei parlamentari, anche quelli legati a precisi ordini di scuderia. Quelli che ho incontrato, e sono stati parecchi, convenivano sul fatto che sostituendo Draghi al governo divenisse difficile rimpiazzarlo. E, d’altra parte, sostituito Mattarella, difficilmente che Draghi avrebbe proseguito nel suo difficile impegno”.

Quindi si è palesato il partito di Mattarella?

“Secondo me è un errore interpretare la politica di oggi con le culture, i modelli e i partiti vissuti nel Novecento. Credo piuttosto che debbano avere connotazioni diverse. Oggi esiste un’aggregazione intorno a Draghi, cosi come si è visto sulla rielezione di Mattarella. Eviterei tuttavia di tirarlo dentro queste vicende. Il presidente della Repubblica rappresenta l’unità nazionale, non può essere schierato come accade in Francia e in America. Mattarella è un cultore rigoroso della Costituzione, deve stare fuori dagli schieramenti. Non può esistere un “modello Mattarella”. Semmai, un modo di sentire che rifletta le sue posizioni di politico europeista, multilateralista, sensibile ad alcuni temi come l’accoglienza, il superamento dei confini e dei muri, l’attenzione ai più deboli”.

E qual è, invece, il modello politico del futuro?

“Prefigurare i caratteri di uno schieramento che si accompagni a Draghi: liberale, progressista, riformista, solidarista ed europeista. Che sappia affrontare le sfide che vengono dalla globalizzazione e che evolvano nel senso di una politica in grado di leggere il futuro e di guidarlo. Lascerei fuori dalla porta populismi, sovranismi e qualunquismi. Insomma un rinnovamento che proceda verso una nuova umanità. Penso ad una “convenzione repubblicana” intorno a Draghi che contenga tutti gli affluenti delle migliori culture politiche del Paese. Alle quali chiederei uno sforzo di ammodernamento e di profezia, insomma un pensiero all’altezza delle sfide globali del mondo che valga per Draghi ma anche per le generazioni che lo seguiranno”.

Ma non è detto che Draghi sia interessato a portare avanti il modello che si ispiri a lui.

“Certo, Draghi farà gli interessi del Paese fino al termine della legislatura. Ma non so se basterà…  Io, ad essere sincero, lo vedrei bene anche come futuro leader europeo. Non ci sarebbe miglior candidato di Draghi allorché la Von der Leyen smetterà il suo mandato. Per l’Italia avere il capo del governo europeo sarebbe un evento di assoluta importanza”.

Onorevole, veniamo alla Sicilia. Crede che il modello da lei prospettato possa trovare spazio anche nell’Isola?

“Partiamo da un assunto: in questo caso il laboratorio non è siciliano, ma nazionale. Che poi in Sicilia possa esserci qualcuno capace di aggregare per ragioni diverse da quelle nazionali, è un’altra storia. Ma come è possibile conciliare le posizioni di Salvini, che ora propone un modello federalista repubblicano all’americana, con quelle di Micciché, che predilige la stessa maggioranza che ha eletto Mattarella? Mi pare difficile e alquanto improbabile”.

L’assenza di una strategia unitaria è lo specchio della crisi dei partiti?

“Al netto della corsa sul carro dei vincitori, non se n’è salvato nessuno. Sono in atto più di una crisi: non solo quella del sistema politico italiano (dei partiti e delle coalizioni), ma anche del rapporto tra deputati e vertici. Quale dei gruppi poteva dire di essere perfettamente in linea con le direttive dei vertici? Nessuno. Erano divisi al loro interno, anche se cercavano tatticamente di nascondere le loro debolezze”.

Serve una nuova legge elettorale?

“Certo. Una legge elettorale che obbedisca a questa urgenza di rinnovamento. E che non si riduca a garantire un seggio in più a tizio o a caio”.

Qual è la soluzione migliore?

“Io sono figlio del proporzionale classico, che non aveva sbarramenti o premi di maggioranza. Ma è un sistema che oggi non va più bene. Per garantire la governabilità non può esistere un proporzionale a briglie sciolte: serve una soglia di sbarramento alta, per evitare i frazionismi, gli individualismi e le congreghe che si mettono insieme per mere ragioni potere. Ci vuole un premio di maggioranza per chi vince; e la fiducia costruttiva sul modello tedesco. Per aprire una crisi di governo, ne serve un altro pronto a rimpiazzarlo”.

L’elezione diretta del presidente della Repubblica, invece, potrà mai diventare realtà?

“Se eleggiamo direttamente il presidente della Repubblica, questo rappresenterà i vincitori. Non sarà espressione dell’unità nazionale, come accade oggi. Bisognerebbe tuttavia cambiare l’impianto costituzionale, cosa non facile”.

Secondo lei, in Sicilia, alle prossime Regionali, si presenteranno i soliti schieramenti contrapposti?

“Se ci fosse spazio per il rinnovamento auspicato, esso non potrebbe concretizzarsi prima della prossima legislatura. Ma si può cominciare a lavorare sin da subito.  Magari proponendo una candidatura che abbia equilibrio, connotati innovativi e un respiro politico adeguato insieme con la capacità di rappresentare urgenze ed esigenze di una terra martoriata. Una figura autorevole e paziente, che intenda “stare” sul territorio così da interpretarne le domande di sviluppo e di rigenerazione”.

Ha in mente qualcuno?

“Anche se fosse, non glielo direi. Significherebbe predicare bene e razzolare male”.

Non c’è più spazio per il centro?

“Cosa vuol dire ‘centro’? E’ un luogo geometrico? Pura topografia? Il posto delle fragole nel quale ci si incontra per far politica come un tempo accadeva? Non è questo il mio pensiero. Il centro non è un luogo. È una politica che sa leggere il senso comune e sa interpretare i movimenti e le aspirazioni della società civile. Non è una formula, è una civiltà del fare e del cooperare. Avendo di fronte il bene comune e per regola la virtù che deve sempre assistere gli operatori della politica. Il centro non è costume o prassi mediatoria; è, come sostenne Moro, “intelligenza dei fatti”, spirito del tempo”.