Perché c’è bisogno di Tiresia

Al di là di come la si pensi sull’uso dei teatri greci, molto bene ha fatto Roberto Andò ad immaginare questa serata, unica nella sua storia, di un Andrea Camilleri che imbastisce, prodotto dalla Fondazione INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico), la sua Conversazione su Tiresia. Bene ha fatto Andò, comprendendo che Camilleri oltre ad essere la più grande coscienza letteraria dei tempi odierni, è anche un personaggio catartico e attrattivo che può sostituire oggi, anche solo con la sua scrittura, qualsiasi star attoriale dall’altisonante e televisivo nome di richiamo. Sia detto per inciso – e mi scuseranno i lettori di questa nota personale – diversamente da quello che ha creduto di fare il Direttore del Biondo di Palermo, Roberto Alajmo, il quale, avendo di fatto commissionato a me e a Camilleri da un anno un progetto su un romanzo da ridurre per il teatro, nella linea degli altri fortunati progetti portati in tutti i teatri italiani in questi anni, ha deciso, con la sbrigativa formula di un messaggino sul mio telefono, di annullarlo con la discutibile motivazione di mancanza di un nome di richiamo nel progetto. Chiusa parentesi.

Il teatro greco di Siracusa pertanto, lunedì 11 giugno, si riempirà di spettatori che vorranno assistere al canto dell’aedo moderno, come ho più volte e altrove definito Andrea, che volerà dalla profondità sonora della sua voce sino alle vette della disperata immaginazione dove fa nido il senso della vita, del tempo e dell’esistenza. Camilleri sarà un indovino che interroga la natura con le sue parole e che, nel contempo, conversando su Tiresia converserà in realtà con Tiresia. Poiché con l’indovino dalle sette esistenze deve condividere, per tragica necessità, una cecità non voluta, ma accettata, e l’interrogazione dovrà ripercorrere la mirabilante esposizione della sua identità, dico di quella di Tiresia, che l’umanità letteraria e artistica ha fatto dall’origine del mito fino a Woody Allen.

Questo giuoco dell’immaginazione senza la luce naturale della vista rimanda ad un percorso en abyme di specchi che sovrappongono la faccia mai conosciuta dell’Indovino ermenegisto con quella del Cantore di Vigata. Entrambi ciechi ed entrambi puri, entrambi vecchi ed entrambi bambini. E di occhi di bambino si tratta: l’occhio innocente di un bimbo, per purezza nei confronti del mondo, per incontaminazione, per il suo essere ‘fanciullino’, è il motore dell’azione dell’esistenza e della sua sopravvivenza nella eresia del tempo: “Sono stato ovunque, per me non c’è mistero. / Quando ero uomo, come il mare mi infuriavo, / quando ero donna, come la terra donavo.”

E come a Tiresia, colpevole di avere visto Atena nuda nel fiume e da questa dunque accecato, fu concesso da Proserpina il privilegio di sopravvivere attraverso la porta misteriosa dell’esistenza oltre il corpo, oltre la sua naturale caducità, a Camilleri il tempo ha concesso un similare privilegio: di tenere lo stupore e lo sguardo dei suoi occhi anche oltre la possibilità reale di vedere. Quello stupore che ci incanta nel trasfigurare la realtà e la storia facendocela godere come un racconto di fiaba, quello stupore che ci ammalia nel giuoco della fantasia, sviluppato per gradi, per assonanze, per sottigliezze ed ironie, al fine di rendere unico e irripetibile il materiale e gli elementi, sebbene non ancora nuovi, della fabula che ci racconta.

Camilleri è un cantore di storie, pre-filosofico, cantore di miti senza l’intento lirico che permeava la poesia omerica o pre-omerica. Con il carico di secoli pieni di razionalismo, certo, e pure con una coscienza popolare dell’uditore (l’autore conosce appartenenze e classe del suo pubblico), ma pur sempre un cantore, un affabulatore, di miti moderni. In questo la sua posizione verso il mito è di stampo platonico: crede razionalmente nella pericolosità del mito classico, carico forse di analogie eccessivamente al di fuori di questa sua realtà, e scorge la necessità di inventarne altri per capirla meglio. I suoi personaggi, guardati in chiave filosofica, sono un po’ come quelli della caverna di Platone: ma l’intento di Camilleri non è ontologico, ma interpretativo, questo sì, disperatamente interpretativo come un Tiresia con il volo degli uccelli nel cielo.

Giuseppe Dipasquale :

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