Visto che la sinistra non riesce a scrollarsi di dosso la sindrome del perdente – anche alle Europee è arrivata una legnata – il prossimo candidato alla presidenza della Regione, per il campo progressista, non potrà che essere un ‘perdente’ di lusso: Cateno De Luca. Il sindaco di Taormina e leader dell’opposizione all’Ars, ha fallito, per sua stessa ammissione, l’azione di sdoganamento nazionale del suo partito (1,22 per cento complessivo), tuttavia ha conservato una buona media rispetto ai voti attribuiti alla sua lista dai siciliani: sui 115 mila preferenze per Libertà, 69 mila erano “sue”.
In un’intervista a ‘La Sicilia’ ha detto di aver fatto meglio della Meloni – sempre basandosi sul rapporto tra preferenze personali e voti di lista – tuttavia sa benissimo, De Luca, di aver abbandonato, una volta per tutte, l’aspirazione di diventare il sindaco d’Italia. Il più famoso dei De Luca rimarrà Vincenzo, governatore della Campania e spina nel fianco della premier (cui ha dato della “stronza”), mentre Scateno è già al secondo flop dopo la Suppletive per il Senato di Monza e Brianza, che l’ha visto classificare al terzo posto, ma lontanissimo dagli altri due (Adriano Galliani e Marco Cappato).
L’autonomismo in salsa deluchiana non funziona, non è attrattivo. E se volessimo davvero basarci sui numeri, dovremmo parlare di un trend al ribasso anche nell’isola. De Luca prese mezzo milione di voti alle ultime Regionali, anche se non sarebbe corretto parametrare quel risultato a questo. Eppure c’è chi suggerisce che l’unico feudo del leader di Sud chiama Nord sia rimasta Messina, dove per tre anni e mezzo si è prodigato da sindaco prima di candidarsi alla Regione. Cateno, tuttavia, è in gioco e ci rimane, perché le opposizioni all’Ars – anche se non ufficialmente – gli hanno riconosciuto la funzione di spirito guida rispetto ai problemi e alle questioni d’aula: la preparazione di De Luca, sotto il profilo amministrativo e contabile, non si discute. Metteteci l’energia del guitto e otterrete una miscela esplosiva, forse l’unica in grado di mettere in discussione l’attuale nonchalance con cui Schifani governa l’Isola e la destra siciliana domina in tutte le competizioni elettorali.
De Luca, però, è uno che tira dritto per la sua strada, anche se in vista del 2027 ha già offerto ai compagni d’opposizione a Palermo una soluzione per non litigare: le primarie. “Misuriamoci, ma almeno un anno prima del voto. Dall’estate del 2026 dovrà cominciare una campagna elettorale in cui ai siciliani presenteremo il programma e la squadra di governo al completo”, ha detto a ‘La Sicilia’. Aggiungendo: “Io ho simpatia e stima anche da elettori di centrodestra e porto come valore aggiunto la possibilità di prendere voti anche dall’altra parte”. L’obiettivo è il solito: abbandonare le sigle e sconfiggere i partiti al governo. Anche se il supporto di M5s e Pd, in questo caso, sarà fondamentale. Accetteranno la sfida delle primarie o si ridurranno a privilegiare il proprio orticello come avvenuto alla vigilia delle Regionali di settembre 2022, quando il risultato della competizione interna alla coalizione (con la vittoria della Chinnici) divenne carta straccia?
In effetti M5s e Pd sono reduci da una competizione martoriata e col morale sotto i tacchi. Solo il segretario del Pd Barbagallo, con un pizzico di revisionismo storico, ha accertato che il risultato siciliano dei dem (sebbene dieci punti sotto la media nazionale) non sia così imbarazzante come lo dipingono gli addetti ai lavori: “Siamo cresciuti di due punti rispetto alle ultime Politiche”, è il mantra. Anche se alle ultime Politiche, in effetti, c’era da strapparsi i capelli. Non fa meglio il Movimento 5 Stelle, anzi. A questo giro l’unico vanto è essere il primo partito in funzione anti-centrodestra. Ma a che serve, se centinaia di migliaia di voti (e circa quindici punti percentuali) sono andati dispersi rispetto alle Europee di cinque anni fa? Se Pd e Cinque Stelle riusciranno a togliersi il prosciutto dagli occhi e analizzare seriamente il proprio fallimento, dovrebbero tartassare De Luca di chiamate e farsi portare in salvo il prima possibile.
Ma è difficile per due movimenti così orgogliosi giungere a compromessi. Nel Pd tutti hanno iniziato a cercare giustificazioni e contromisure. Il medico Bartolo, che non ha ottenuto dalle urne il riscontro immaginato, continua a rosicare e mettere nel mirino la classe dirigente, come se l’unica causa da sostenere fosse la sua: “Sono deluso perché non è stato valorizzato il mio lavoro. E’ umiliante”, ha detto a Repubblica. “Sono amareggiato perché qui ho lavorato duramente, ho lasciato la mia famiglia, il mio lavoro, per impegnarmi in questa avventura. Non mi sento tradito, ma il partito poteva fare qualcosina in più per me”. Qualcosina in più per tutti. Ma è proprio mancato il partito che, al netto dell’inossidabile Giuseppe Lupo, continua a proporre soluzioni civiche che non hanno molto a che fare con la vita del partito e nelle quali i militanti (sempre meno) non si riconoscono. E’ successo anche per Lidia Tilotta.
I democratici sono stati persino in grado di resuscitare Leoluca Orlando, sindaco di Palermo per cinque volte, che aveva chiesto con insistenza a Elly Schlein di candidarlo. Niente, il telefono era occupato. Così Orlando, incartapecorito dal tempo e depotenziato dai scarsi risultati ottenuti alla guida della quinta città d’Italia, ha trovato una sponda nei Verdi e nella lista Avs, ottenendo lo scranno a Bruxelles pur avendo totalizzato 18 mila preferenze. Poche ma bastevoli per rifilare una pernacchia agli ex colleghi. Ora si gode il trionfo da redivivo, esultando come fanno gli ex di turno che segnano un gol, da avversario, al primo derby.
Tra i Cinque Stelle – che sono comunque riusciti a strappare un risultato superiore alla media nazionale (‘non ci voleva tanto’, direte voi) – l’autocritica è materia in disuso. Ma non c’è neanche il rituale scaricabarile. Si predilige l’autoassoluzione. Il portavoce regionale Nuccio Di Paola si esalta per le 240 mila preferenze che hanno consentito al Movimento di essere “primo partito tra le forze alternative alla destra” (di che colore è la medaglia?). Il capogruppo all’Ars Antonio De Luca, brindando con l’unico eletto (Giuseppe Antoci) ha dichiarato che “la fiducia che avete riposto ancora una volta nel M5S Sicilia, per noi è da stimolo per nuovi e ambiziosi progetti sempre a beneficio dei siciliani”. Insomma si può ripartire da zero: col test del capello, con le auto blu, con le proteste no-Ponte. Temi che, come evidenzia il voto di sabato e domenica scorsa, hanno “pagato”.
Ecco, per due partiti così servirebbe qualcos’altro. Magari un’inversione del senso di marcia. Magari la ricerca di nuovi e autorevoli rappresentanti che agevolino il percorso di ripartenza (il Pd si limiterà a un confronto in Direzione per prendere atto che il tempo è scaduto, e magari a un congresso più avanti). Oppure, in mancanza d’idee, un bel polpettone progressista per cercare di sfangarla alle prossime Regionali. E’ probabile che andrà così, con Scateno al timone. Un perdente di lusso come salvatore della patria.