C’è una lunga fila fuori dal portone della Regione. Ma chi bussa, da qui alla prossima settimana, troverà chiuso. E’ il destino di quest’Isola infelice: nonostante il Coronavirus ci abbia graziato sotto il profilo sanitario (la curva dei contagi è trascurabile), le ripercussioni economiche del Covid-19, così temuto, si sono già materializzate per una enorme platea di lavoratori. Musumeci, che minaccia di abbassare nei giorni di Pasquetta le poche saracinesche rimaste alzate, non si è ancora proiettato nella fase-2: quella di convivenza col virus, in cui bisognerà riaprire le attività produttive e rimettere in moto l’economia. Al netto della creazione di una task force, che “avrà il compito di pianificare e monitorare lo stato degli interventi”, non c’è uno straccio di prova che il governo sia entrato in quest’ottica. Basta ascoltare l’intervento di Gaetano Armao all’Assemblea regionale, ieri mattina, per rendersi conto di quanto sia drammatica la situazione della Regione: in sintesi, non c’è un euro.
E non c’è uno straccio di Bilancio. Resiste solo un’idea – parziale – di come allestire uno schema che lo Stato e l’Europa, da un momento all’altro, potrebbero sconfessare. Bruciare. Demolire. Costringendo i poveri deputati, che a palazzo dei Normanni già si vedono di rado (e con la mascherina) a ragionare su una manovra che non vedrà mai la luce. Il presidente dell’Ars, Gianfranco Miccichè, ha chiesto chiarezza: “Noi possiamo lavorare solo con numeri certi”. Ma i numeri certi in questo momento non esistono. Detto che la Regione non ha un solo euro da investire, Armao e soci pendono dalle labbra di Roma e, indirettamente, di Bruxelles, dove in queste ore si decide quanto l’Italia potrà indebitarsi. A quel punto, la Sicilia negozierà un accordo con lo Stato, ovviamente al rialzo, per poter sforare anch’essa e ottenere quel gruzzolo di liquidità che in condizioni normali si sarebbe sognato.
E’ triste dirlo, ma l’emergenza diventa l’unica leva per scrivere una Finanziaria che si occupi prevalentemente di rimettere in pista gli operatori del turismo, i lavoratori stagionali, le imprese taglieggiate dal virus. Che dia una linea ai cassintegrati, che combatta la povertà. Ma non c’è niente di tutto questo se non arriverà una mano, anzi un braccio, dal governo Conte. Armao l’ha detto a chiare lettere: servono almeno due miliardi per poter onorare il debito d’onore con i siciliani. E ha scritto una lista della spesa, in cui aspira al massimo profitto col minimo sforzo. L’assessore all’Economia – fra le altre cose – ha chiesto di essere esentato dal contributo alla finanza pubblica (un miliardo) per il 2020 e di sospendere la quota di disavanzo da oltre 400 milioni, allo scopo di liberare quelle risorse aggiuntive che ormai da due anni Roma non si rassegna a riconoscerci.
Perché qui c’è un altro aspetto da considerare, e Armao ha dovuto ammetterlo di fronte a una Sala d’Ercole semideserta: “Il negoziato è cominciato ad agosto 2018 e, come ha detto bene Musumeci, siamo rimasti – non certo per responsabilità nostre – l’unica Regione a non avere un accordo di finanza pubblica complessivo, pur avendo messo tutte le carte sul tavolo. Abbiamo tutto il diritto, nonché l’interesse comune, di portare a casa l’accordo più vantaggioso per la Sicilia”. Un accordo che sarebbe già dovuto maturare negli anni. Da quando, col governo Conte-1, in più di una circostanza, Musumeci e Armao sono volati a Roma, dall’ex Ministro Giovanni Tria, con cui il vicegovernatore vantava antichi rapporti d’amicizia. Ma da questa amicizia consolidata e da tutti questi vaporosi soggiorni romani non è riuscito a cavare un ragno dal buco. Solo una serie di viaggi a vuoto: Tria era lo stesso Ministro che in alcun modo volle concedere la dilazione in dieci anni del disavanzo maturato dalla Regione con lo Stato.
Non che le cose siano cambiate granché col governo Conte-2. Armao, da qualche tempo, fa riferimento al viceministro dell’Economia, Antonio Misiani, ma il negoziato stenta a dare i suoi frutti: il tentativo di vedersi riconoscere le attuazioni statutarie, e, conseguentemente, di ridefinire la partecipazione al prelievo forzoso dello Stato allo scopo di liberare risorse aggiuntive, continuano a non dare soddisfazioni. La Sicilia è l’unica regione a statuto speciale, più speciale delle altre. Nel senso che non quaglia nulla. Anche la “simpatia” istituzionale di alcuni ministri chiave, come Peppe Provenzano o Francesco Boccia, nei confronti dell’assessore regionale, è ridotta ai minimi termini. E si è letteralmente guastata a cavallo di Natale, quando la Sicilia ottenne per il rotto della cuffia la famosa dilazione del disavanzo da 2,1 miliardi certificato dalla Corte dei Conti, in cambio di un impegno a rivedere gli sprechi e le clientele. Anziché apprezzare il gesto, Armao ebbe da ridire: si scagliò contro le “cure da cavallo” e andò dritto per la sua strada, nel tentativo di ottenere ciò che tuttora si è rivelato impossibile. L’accordo di finanza pubblica.
La Regione siciliana non è messa come le altre. E’ messa peggio. E in questi giorni si tocca con mano il suo stato di precarietà. L’impossibilità di chiudere un Bilancio – in termini di legge dovrebbe avvenire entro il 30 aprile, data di scadenza dell’esercizio provvisorio – non permette di soddisfare le numerose richieste che arrivano dai lavoratori in crisi, né dalle famiglie affamate. E nemmeno dai creditori, che per sottrarsi alle grinfie dell’emergenza, cercano rifugio nella Pubblica amministrazione. Il “Giornale di Sicilia” ha citato il caso delle polizze assicurative che l’Unipol Sai ha prorogato fino al prossimo giugno senza ricevere un euro da parte della Regione, che in mancanza di liquidità non può ottemperare al pagamento delle polizze scadute nel dicembre scorso. Ora è la Unipol a chiedere aiuto perché non riesce a pagare i propri dipendenti. Fra gli altri debiti non onorati, c’è una fattura da duecento mila euro a una società che ha ristrutturato un tratto delle reti idriche della Regione, ma l’assessorato all’Energia non ha saldato neppure gli arretrati del 2019.
Dure critiche, per questo atteggiamento, sono arrivate dal vicepresidente vicario di Sicindustria, Alessandro Albanese: “Una pubblica amministrazione che, in un momento come questo, non paga neanche i debiti pregressi compie un atto criminale – ha detto Albanese –. Abbiamo ricevuto decine e decine di segnalazioni da parte delle nostre imprese che continuano a ricevere comunicazioni da parte della Regione siciliana, con le quali viene comunicata l’impossibilità a saldare i debiti pregressi per le cause più diverse: dal bilancio ancora provvisorio, alle delibere di giunta mancanti o, ancora, al mancato riaccertamento delle somme. Trovo che questo sia oltremodo indecente e scandaloso, visto che le imprese sono già in ginocchio a causa dello stop delle attività. Capiamo che il momento è difficilissimo per tutti, ma non è possibile pubblicamente sbandierare sostegno e privatamente chiudere i rubinetti dei pagamenti dovuti per servizi già erogati o per investimenti già realizzati”.
Ma la fila è lunga, lunghissima. Comprende pure una enorme platea di sventurati che, in queste ore, aspettano il “miracolo” della cassa integrazione in deroga (perché hanno sospeso l’attività e non godono di altri benefici). Saranno centinaia di migliaia le richieste di ammortizzatori sociali che, da qui ai prossimi giorni, confluiranno sulla piattaforma messa a disposizione dall’assessorato al Lavoro. Ma verrà dato il “via libera” solo a quelle presentate per prime. I 108 milioni stanziati da Roma non bastano, e la Regione, in seguito all’approvazione del Bilancio, pensava di aggiungerne qualche decina. Ma anche questa è una mossa che rimarrà in sospeso. Pensa te se una piccola azienda siciliana, con appena un paio di dipendenti, per non morire soffocata debba aspettare l’esito dell’Eurogruppo a Bruxelles. Somiglia tanto alla fine delle istituzioni.