“Su Repubblica del 15 dicembre Francesco Merlo si chiede: “L’assoluzione di Mannino condanna i giudici che l’hanno inquisito?”. Per il processo relativo al “concorso esterno in associazione mafiosa” ero io il “capo” degli inquisitori palermitani e quindi sarei io che dovrei subire il massimo della pena. Senonché, gentile direttore, mi dichiaro… innocente”. Così Giancarlo Caselli, procuratore della Repubblica del Tribunale di Palermo dal ’93 al ’99, replica al giornalista Francesco Merlo, all’indomani della conferma di assoluzione per Calogero Mannino, pronunciata dalla Corte di Cassazione. “A discolpa mia e dei colleghi della procura di Palermo che hanno lavorato sul caso chiedo di poter esibire come prova l’iter stesso del processo – continua Caselli nel suo intervento -. Che fu iniziato (com’era doveroso) in base all’orientamento giurisprudenziale della Cassazione vigente in quel momento. Ma poi, annullando con rinvio la condanna inflitta a Mannino in appello, la Cassazione (Sezioni unite) operò una svolta. Se prima bastava provare l’esistenza di un patto tra mafia e accusato, fu deciso di alzare l’asticella probatoria, richiedendo anche la prova di un “ritorno” del patto in termini effettivamente e significativamente incidenti. In corso d’opera cambiano le regole: come se nel bel mezzo di una partita di calcio si stabilisse che per vincere bisogna segnare non uno ma quattro gol in più”.
“Tralasciando il fatto – prosegue Castelli – che la svolta del processo Mannino ha suscitato le critiche di garantisti doc come il prof. Fiandaca, secondo il quale la magistratura di merito è stata messa di fronte “all’alternativa o di rinunciare a perseguire alcuni casi di pur palese contiguità, ovvero di flessibilizzare in maniera anche surrettizia gli impegnativi criteri causali codificati dalla pronuncia Mannino”. A questo punto, credo, potrei quanto meno chiamare in correità i magistrati della Cassazione. In ogni caso, invoco… la clemenza della corte”.
Al procuratore Giancarlo Caselli, ancora attraverso le colonne di Repubblica, ha risposto il giornalista Francesco Merlo che per primo aveva innescato il dibattito sulla stampa: “È sorprendente che un magistrato del rango e della carriera di Gian Carlo Caselli si senta oltraggiato dall’innocenza di un imputato e senta il bisogno di difendersi e di assolversi. Sarebbe invece doveroso che usasse la sua brillante ironia e la sua polemica intelligenza per spiegarci la mostruosità del caso Mannino, la barbarie di un uomo non perseguito ma perseguitato e distrutto in nome della giustizia. Per ammetterlo non c’è neppure bisogno del famoso coraggio civile di Caselli, basta l’aritmetica: Calogero Mannino fu inquisito per la prima volta nel 1991 e, alla fine di una sfilata di processi e di imputazioni, l’ultima assoluzione, quella definitiva della Cassazione, è del dicembre del 2020”.
“Caselli – continua Merlo nella sua replica – scrive che “in corso d’opera hanno cambiato le regole”. Ma non ci sono regole che in Italia durino più di trent’anni quali che siano le opere in corso, e l’innocenza di un uomo non è un’opera in corso. Peraltro non è vero che sono cambiate le regole, come nell’esempio inappropriato del falso in bilancio, ma è soltanto cambiato un orientamento giurisprudenziale. Ed evidentemente questo nuovo orientamento non è stato condiviso dai magistrati i quali, con accanimento, hanno infatti tenuto in vita i processi sino ad oggi. Sicuramente nessuna Cassazione ha deciso che i mafiosi vanno assolti o che per vincere una partita di calcio non basti più segnare un gol. Ancora, io penso, confortato dai migliori storici e dai migliori scrittori d’Italia, che sia innegabile la contiguità che c’è stata tra la mafia e la Dc in Sicilia, o meglio ancora, l’innervatura dell’una nell’altra. Ma tra le mostruosità del caso Mannino c’è anche questo: la giustizia, proponendosi come tribunale della storia d’Italia, è riuscita a trasformare in un martire italiano un protagonista proprio di quella Democrazia cristiana. Caselli ne sente la responsabilità? Infine, neppure l’ironia di Caselli riuscirà a coinvolgermi nel conflitto stantio e ormai insopportabile tra il giustizialismo forcaiolo e il garantismo peloso. La verità è che anche questa lettera di Caselli conferma che Mannino non andava assolto perché non andava processato”.