Cambiamento o declino? L’anno zero di Papa Francesco

“Viaggio senza meta, sconfitta senza vincitori, follia senza scuse”. Dalla loggia centrale della basilica, come prua di una barca in tempesta, sospesa oltre che protesa tra l’anno nel quale la guerra, invece di cessare, ha raddoppiato e l’anno in cui potrebbe allargarsi ulteriormente, sfuggendo di mano ai suoi strateghi, l’erede dell’apostolo Pietro, raggiunto dalla conta dell’ennesimo eccidio, prima di affacciarsi e parlare al mondo deve avere rivolto al Signore, nascosto a poppa, una domanda: se questo sia il segnale del naufragio e l’umanità si prepari ad affondare.

Anche perché al suo sguardo il fondo è ormai toccato, che più giù non si può, nel giorno insanguinato di un Natale-non-Natale: il più lontano dalle aspettative, ma pure il più vicino, crudamente, alle narrative. Rinnovando la strage d’innocenti e riempiendo di tombe bambine su ambo i fronti la terra che fu culla di Gesù. “Sono i piccoli Gesù di oggi”, ha chiosato. Immagine visualizzata dal sudario che avvolge la statuina del Figlio di Dio, come in un rito funebre di Gaza, nel presepe allestito a Betlemme: “Dov’è il Natale?”, si è chiesto laconico celebrandovi Messa il cardinale-patriarca Pierbattista Pizzaballa.

Se Natale rimanda ogni volta per definizione all’anno zero della Chiesa, quello del 2023 riveste in aggiunta un significato specifico, nevralgico di anno zero di Francesco. Aspetto viepiù rilevante per un Papa che una decade fa di questi tempi, nel dicembre 2013, ad appena nove mesi dall’elezione in Sistina, veniva trionfalmente acclamato dai media man-of-the-year, sull’altare iridato e patinato di Time.

Ponendo al dunque l’interrogativo di fondo: se ad essere irreversibile sia il cambiamento da lui avviato, foriero di una rinascita più o meno a breve, oppure l’ineluttabile declino di una istituzione che scivola, perde terreno, sotto i colpi di un trapasso epocale ostile, in attesa di secoli migliori. Quesito che Francesco è parso affrontare cripticamente, criticamente nell’omelia della notte, separando di netto il Dio dei numeri, dei successi tutti e subito, “delle prestazioni” e il Dio dei cuori, dei processi che richiedono tempo, “dell’incarnazione”.

Vale sotto i cieli dell’Orbe, dove il verbo del Vicario di Cristo e dei suoi emissari fallisce, arretra e non riesce a penetrare dal Donbass al Dnepr, da Gerusalemme a Gaza, con l’esclusione della diplomacy del Vaticano dalla zona elettiva d’influenza. “Il Principe della pace anche oggi viene rifiutato”, ha protestato a riguardo Bergoglio, in una estensione geopolitica del “non trovarono alloggio”.

Vale altresì sotto il cielo dell’Urbe, in cui la vecchia curia, congegnata sul verticismo della Segreteria di Stato, non c’è più, mentre la nuova, policentrica e riformata, esordisce tra procedimenti penali che investono cardinali e provvedimenti disciplinari che rimuovono vescovi refrattari. Per non parlare della sfida personalissima che l’anno che si chiude gli lancia in casa, in Argentina, insediando alla Presidencia de la Nación un “Trump della Pampa” e insidiando nonché denigrando, dalla Plaza de Mayo all’Avenida Nueve de Julio, il mantra e l’eredità del Papa peronista.

Il 2023, affrancato dalla “fideiussione” di Benedetto XVI – che con la sua mera ed emerita presenza nel “recinto di San Pietro” bilanciava e garantiva teologicamente l’intraprendenza del successore ma contestualmente la frenava e inibiva in guisa di riflesso condizionato – si distingue sin dall’inizio per l’accelerazione o “rapidación” impressagli da Bergoglio, inversamente proporzionale al progredire dell’impedimento fisico e quasi a cercare il finale sul campo, in un crescendo di eventi eclatanti cominciati arditamente con un viaggio proibitivo alle sorgenti del Nilo, sulla via degli esploratori, e culminati nella condanna penale di un principe della Chiesa, pronunciata in Vaticano da un tribunale di laici. A dieci giorni dal Natale.

E’ tuttavia in ambito di governo che si registra l’innovazione più rivoluzionaria, nel senso letterale di un ribaltamento di priorità rispetto al passato, con l’arrivo alla guida del Dicastero per la Dottrina della Fede – l’ex Sant’Uffizio che fu di Ratzinger e Müller – del connazionale di Bergoglio e teologo d’attacco Víctor Manuel Fernández, preceduto dall’invito a “promuovere il sapere teologico di fronte alle questioni poste dal progresso della scienza e dallo sviluppo della società”, piuttosto che a “perseguire possibili errori dottrinali”.

Se ne riscontra un primo effetto emblematico, che colpisce l’immaginario collettivo, nel documento sulle benedizioni delle coppie gay: una fessura più che apertura, priva di concessioni sul piano liturgico e sacramentale ma suscettibile di allargarsi progressivamente a livello pratico, in un delicato equilibrio antropologico tra i suoi sponsor europei e i vescovi africani, notoriamente contrari, lungo la verticale fra Cape Town e Capo Nord.

In singolare coincidenza e analogia con la conclusione di COP 28, anche in Vaticano la “rivoluzione” si limita per adesso a una storica dichiarazione d’intenti, che avvia de facto un periodo di transizione: optando per un generico transitioning away al posto di un categorico phasing out, che avrebbe comportato un graduale smantellamento, dal basso, dell’impianto tradizionale del catechismo.

“Non dimentichiamo che dai labirinti si esce solo da sopra, ricordiamoci di guardare in alto” – ha commentato Bergoglio con annotazione rivelatrice, durante il tradizionale discorso di auguri alla curia: “E’ importante camminare, non smettere di cercare, di approfondire la verità, vincendo la tentazione di restare fermi e labirintare dentro i recinti…Come fecero i Magi, seguendo la luce, che talvolta ci fa percorrere sentieri non esplorati e strade nuove”.

Nuove vie che non si prospettano solo intra moenia, nel foro interno della morale cattolica, bensì “fuori le mura”, nell’agone della politica mondiale, dove la stella del magistero sociale completa con l’esortazione Laudate Deum, pubblicata in ottobre, l’orbita di allontanamento da Occidente intrapresa nel 2015 con l’enciclica verde Laudato Si’: mettendo lapidariamente a confronto nei paragrafi conclusivi la quantità di emissioni, pro-capite, di un abitante degli Stati Uniti, della Cina (il 50%) e dei paesi poveri (sette volte meno), per intimare l’abbandono dello “stile di vita, irresponsabile, legato ai modelli occidentali”.

Laudate Deum risuona dunque alla stregua di un ultimatum. In luogo dell’annuncio di lieti eventi, la “denuncia” del mito di un progresso senza fine, a fondamento della modernità: “perché un essere umano che pretende di sostituire Dio diventa il peggiore nemico di sé stesso”. Seguita in calce dall’autografo di Francesco, l’osservazione conclusiva risulta portatrice di un messaggio istituzionale, prima che spirituale, descrivendo un paesaggio in cui l’uomo e la politica, leva e strumento della sua libertà, vengono a loro volta soppiantati dalla tecnica, espropriando gli spazi della democrazia.

Post-occidentale, postmoderno, postdemocratico, il Papa certifica l’orizzonte dell’anno zero, facendo del Giubileo un simbolo di re-start universale, dopo un quarto di secolo che ha riportato il Millennio alla barbarie, con la serie a ripetizione di false partenze dall’11 settembre al 7 ottobre.

“Ti offro l’unica cosa grande da amare sulla terra”: consapevole del proprio isolamento, come Isaia in un frangente di decadenza e come Gandalf all’assedio di Gondor, Francesco ha difeso la cittadella della speranza, mutuando le parole del cattolico Tolkien, autore che suscita in lui emozioni. E riflessioni. Appellandosi al cielo e proferendo frasi “epiche” inattese.

Così, a fronte di un pianeta che gli appare popolato da orchi, demoni e fabbricanti d’armi, un vecchio pontefice, appassionato di letture fantasy, ha evocato segnatamente il segreto delle virtù divine (fascino, gloria, onore, fedeltà) che sprigionano dal verbo incarnato e convocato intorno a sé, quale ultima risorsa disponibile, una profetica, suggestiva “compagnia dell’anello”: istituendo la giornata mondiale dei bambini, programmata per maggio 2024, e muovendo con il suo esercito di piccoli uomini verso il “Monte del Fato”. E del futuro. Fiducioso che Avvento e avventura per una volta convergano. E coincidano, come nella Scrittura e nella saga, con il “ritorno del Re”.

Piero Schiavazzi per Huffington Post :

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