E’ passato quasi un anno dal 10 ottobre 2020, quando Pietrangelo Buttafuoco mise in scena, per la prima nazionale, “Il lupo e la luna”, tratto da un cunto siciliano dato alle stampe nel 2011. Da un lato il Teatro Olimpico di Vicenza, l’apoteosi del genere, una roba che quando ci entri “fa scantari”. Dall’altro Buttafuoco, abilissimo nella narrazione orale della sua Sicilia. “L’idea nacque da una telefonata con Giancarlo Marinetti, direttore dell’Olimpico, che perfezionò il tutto chiedendo a Giuseppe Dipasquale di firmare la regia e costruire un adattamento teatrale di questo racconto”.
Lo spettacolo è tornato per un paio di giorni in Sicilia: al Mercato Antico di Siracusa e alla Villa Filippina di Palermo. “E’ la vera storia di Scipione Cicala – anticipa Buttafuoco -, un ragazzo siciliano che viene rapito dagli Ottomani, i quali riconoscono in lui le grandi capacità strategiche, militari, e una profonda conoscenza della dottrina. Scipione scala tutti i vertici del potere ottomano che, all’epoca di papa Enea Silvio Piccolomini, era la prima potenza mondiale, e si ritrova a combattere contro l’esercito dei cristiani alla cui testa c’è il fratello. Due fratelli con le insegne dello stesso casato – quello dei Cicala, una famiglia ligure-siciliana – che combattono appaiando al loro stendardo di famiglia i propri ranghi militari: uno con la mezzaluna, l’altro con la croce”.
Il protagonista è Scipione, “obbediente fino all’estremo ai suoi doveri. Se c’è da combattere e fare razzie nei luoghi in cui è nato, lo fa senza porsi il problema”. Ma questa storia, in seguito, “incrocia il senso profondo dell’amore”. Scipione è il lupo che va alla ricerca della luna: “Dopo avere consegnato ai suoi doveri il massimo dei successi e dei trionfi, quando ha toccato lo zenit del suo obbligo terreno – dice Buttafuoco – lascia tutto e si dedica a una vita felice come mai si può immaginare nell’esistenza di tutti noi. Nel senso che rinuncia a tutto ciò che ha conquistato per richiudersi sul monte Altesina, il punto da cui i geografi a seguito degli emiri e di Re Ruggero stabilirono i confini dei tre valloni di Sicilia; e da questo eremo costruisce la sua dimora d’amore con una nobildonna incontrata a Palermo, dopo averla rapita e portata con sé”.
Scipione Cicala è un personaggio poco noto ai siciliani, mentre “i turchi lo considerano una sorta di Garibaldi. Anche Fabrizio De Andrè, nel suo album in genovese (Crêuza de mä), gli ha dedicato una canzone”. Ma ciò che rende il racconto magico e attuale sono le memorie materiali: “Non ultimi i tre meravigliosi palazzi, uno a Genova, uno a Istanbul e uno a Messina (cancellato dal terremoto). La dinastia dei Cicala è stata importante nei traffici commerciali. Ovviamente erano anche dei pirati”.
Mentre Buttafuoco attende la chiamata del volo che lo riporterà in Sicilia, la conversazione scivola sulle questioni di politica. E sulla sua analisi, esplicitata altrove, che vede i sindaci del centrodestra perdenti in gran parte delle città al voto in ottobre. Spesso perché manca la materia prima: “La sinistra – attacca lo scrittore – è fatta di apparati, cioè di strutture che tutelano e difendono le persone che mettono in campo. Ci sono un paio di possibilità: se a Roma l’ex ministro Gualtieri perde le elezioni, il Pd, da qualche parte, uno spazio, glielo troverà. Se invece verrà eletto, quasi certamente incapperà in un guaio giudiziario: ma anche in quel caso – a differenza di un signor nessuno – troverà un occhio di riguardo da parte della magistratura. Storicamente funziona così”.
Il problema, quindi, sta dall’altra parte: “A destra, invece, chi è questa persona perbene e capace, questo professionista che chiude il proprio studio o il proprio lavoro per andare a fare un lavoro ingrato, complicatissimo come il sindaco? In una eventuale vicenda giudiziaria, oltre alla reputazione, rischia di perdere pure i soldi e la libertà”. In pratica, secondo Buttafuoco, “la sinistra è coerente col sistema. E in questo sistema di potere il Pd ha il suo partito-stato”. Ma c’è un posto dove la destra riesce: “In quel blocco sociale robusto, che è il Nord, dove ci sono i Zaia, i Fedriga, i Fontana, che vengono dalla cosiddetta trincea del lavoro e sono coerenti con un blocco sociale che li tutela spontaneamente. Se Zaia dà disposizione di mandare una carriola per togliere i detriti di un’alluvione, i detriti li tolgono. In Sicilia, invece, un sindaco ha la paura addosso perché se smuove una sola carriola come minimo gli arriva un avviso di garanzia”.
Nella destra siciliana, quella rappresentata dal partito di Giorgia Meloni, volano stracci fra Stancanelli e l’assessore al Turismo, Manlio Messina. L’uno prodigo di letture (da Machiavelli a Mosca a Pareto), l’altro sciatto frequentatore di Facebook. “La destra ha un grande vantaggio rispetto alla deriva social – spiega Buttafuoco -: di avere un patrimonio solido, potente, forte. Sotto il profilo delle memorie materiali, ma anche attraverso il grande lascito della letteratura e l’esperienza della politica. Se la sinistra è il sistema, la destra è l’élite, la costruzione dell’aristocrazia. Sono cose fondamentali: altrimenti non riesci a dare una direzione alla tua azione politica. La Sicilia, tradizionalmente, ha avuto un bagaglio importantissimo a destra. I protagonisti siciliani erano protagonisti anche a Roma, ben radicati nel tessuto sociale. Erano fior di professionisti e operai stimati. Quando bisognava descrivere la figura dell’onesto, lo stesso Camilleri faceva riferimento al calzolaio missino. E non dimentichiamoci che fu la destra siciliana, negli anni della Prima Repubblica, con il Msi fuori dall’arco costituzionale, a esprimere gli unici due sindaci in Sicilia. Uno era Dino Grammatico, a Custonaci; l’altro mio zio Nino Buttafuoco a Nissoria”.