Mentre i dipendenti, da qui al 14 settembre, in base alla timeline fissata dai capi dipartimento, torneranno in ufficio, le “ferie” di Tuccio D’Urso, il dirigente di ferro, si prolungano. Il colonnello di Musumeci, che aveva pubblicamente appoggiato la linea dura del governatore sui regionali “grattapancisti”, va in pensione. Lascia il dipartimento all’Energia e, soprattutto, non potrà più occuparsi – in qualità di responsabile unico – della realizzazione del centro direzionale della Regione in via Ugo La Malfa, a Palermo. Ma soprattutto lascia dopo aver “sbloccato” la promozione di nove funzionari, che accedono a ruoli di vertice (nonostante la contrarietà di Carmen Madonia, dirigente alla Funzione pubblica, che lamenta l’assenza di risorse e spazio in organico per concludere l’operazione).

Prima della pausa di Ferragosto, durante una seduta all’Ars, una norma che avrebbe consentito a D’Urso di rimanere in servizio per altri tre anni è stata bocciata dall’aula con il voto segreto. I grillini l’avevano reputata una legge ad personam; molti addetti ai lavori, ancor prima che il disegno divenisse legge, avevano posto il tema della “costituzionalità”. Posticipare la quiescenza di un dirigente, fuori dai termini perentori previsti dalle norme nazionali – secondo cui la richiesta deve essere inoltrata dai 12 ai 24 mesi che precedono il pensionamento – non avrebbe superato lo scoglio della Consulta.

Ma il contesto, al di là del singolo episodio, non è cambiato di una virgola. Bisogna capire se è la burocrazia a impantanare le politica o se la politica a farsi male da sola, non avendo provveduto negli ultimi 30 anni, a dispetto del blocco delle assunzioni, a una riforma complessiva e generale della pubblica amministrazione. Impedendo, di fatti, l’aggiornamento e la riqualificazione del personale in servizio, oggi sempre più anziano. “L’età media dei dipendenti della Regione – ha tuonato, fino a qualche giorno fa, Gianfranco Micciché su ‘La Sicilia’ – è di 58 anni. Non è possibile far rimanere al lavoro chi è in età di pensione”. E’ vero. I burocrati non stanno al passo con la rivoluzione (promessa) da Musumeci. E per questo – a parte rarissime eccezioni – il clima nei palazzi è teso e avvelenato.

A soffrire l’atteggiamento di rottura, quasi un po’ populista, del presidente della Regione sono soprattutto i dipendenti. I dirigenti generali, infatti, sono stati nominati a metà giugno e non hanno nulla da obiettare al comandante in capo. Non è un caso che il governatore abbia deciso di scaricare la propria frustrazione sui regionali – un parco di 13 mila persone – l’80% dei quali si gratterebbe la pancia. Soprattutto in regime di smart working. Già lo scorso giugno Musumeci aveva scritto all’assessore alla Funzione pubblica, Bernadette Grasso, per chiedere un rientro progressivo in ufficio (fino al 50%) del personale. Poi, quando la minaccia del Covid sembrava lontana, ha preteso, motu proprio, che le stanze di assessorati e dipartimenti, ma anche delle società partecipate, si ripopolassero per intero: “Ma se non lavorate in ufficio, come pensate di essere controllati a casa…” disse.

A rovinare i piani della Regione è stato il solito intervento di Roma: il Ministero della Funzione pubblica ha chiesto alla Sicilia di attenersi alle direttive nazionali e lasciare il 50% dei dipendenti in smart working, poiché le Amministrazioni sono tenute ad “organizzare il lavoro dei propri dipendenti e l’erogazione dei servizi attraverso la flessibilità dell’orario di lavoro – si legge nella nota inviata dall’Ispettorato -, rivedendone l’articolazione giornaliera e settimanale e applicando il lavoro agile al 50% del personale impiegato nelle attività che possono essere svolte in tale modalità”. Una stoccata in piena regola, che però non ha fatto perdere d’animo il governatore.

Piuttosto, ha sfruttato l’assist di Tuccio D’Urso, che ha deciso di bloccare ferie e congedi fino al 15 agosto (“Dopo quattro mesi a casa, si permettono di dire che “psicologicamente” non sono pronti a lavorare? Cose da pazzi”, ha detto il dirigente “modello”), per calcare la mano: “Il diritto dei lavoratori alle ferie è sacrosanto e incontestabile. Ma chi lavora nella Pubblica amministrazione – ha detto Musumeci – deve pensare innanzitutto alle esigenze degli altri e alle conseguenze che ogni sua azione comporta al di fuori del palazzo. Quindi, se rimandare di qualche settimana il godimento delle proprie ferie può servire a non bloccare in ufficio procedure essenziali per imprese ed enti locali, è giusto che il dirigente pubblico richiami i dipendenti alle proprie responsabilità. Il cambiamento in Sicilia non lo si può chiedere sempre e solo a chi governa. Per questo motivo mi sento di condividere pienamente l’iniziativa del dirigente generale del dipartimento Energia Tuccio D’Urso. Vorrei anzi che gli altri direttori agissero con lo stesso spirito di responsabilità”. Un sodalizio in piena regola.

Musumeci, però, non ha risposto, o l’ha fatto solo in parte, a chi gli fa notare che i dipendenti regionali sono “soltanto” gli esecutori finali dell’azione amministrativa. E che qualcosa non funziona ai vertici, cioè nelle caselle apicali della dirigenza, che il governo della Regione ha continuato a riempire – sfornando nomine – con dirigenti di “terza fascia”, equiparati ad ex funzionari, che non avrebbero la qualifica per stare lì. E che sono gli stessi dirigenti, ogni anno, a promuovere col massimo dei voti (o quasi) tutto il personale. Col beneplacito del governatore. Finché il meccanismo di valutazione non sarà davvero indipendente (a dispetto della sigla, Oiv, che vuol dire Organismo indipendente di valutazione) e i premi ricadranno a pioggia su chi blocca le pratiche e su chi glielo consente (i burocrati hanno accesso all’indennità di risultato, che scatta puntualmente ogni anno), non potrà mai cambiare nulla. Perché i dirigenti di ferro, alla D’Urso, si contano sulle dita di una mano.

La Regione avrebbe bisogno di una riforma immediata della burocrazia e di dar vita a una stagione concorsuale per ripristinare meriti e gerarchie. Lo ha ricordato anche il deputato del Pd, Nello Dipasquale, impegnato da mesi in questa crociata: “Non posso credere che Musumeci si sia svegliato dopo tre anni e abbia deciso di definire i regionali un pugno di fannulloni – ha detto l’ex sindaco di Ragusa a Buttanissima -. Dopo tre anni, avrebbe dovuto metterli nelle condizioni di lavorare e rendere. L’alternativa è il licenziamento. Ma quanti dipendenti ha mandato a casa Musumeci a metà legislatura? Nessuno. Anzi, a fine anno, continua a versagli il salario accessorio e le indennità di risultato. Fra l’altro sono il presidente e la giunta a determinare i tetti delle indennità aggiuntive, che risalgono ai tempi di Crocetta. Vuol dire che Musumeci non li ha abbassati né modificati: ma continua a pagare il massimo”. I concorsi, invece, non si sono mai celebrati, perché “per sbloccarli – sia quelli interni che quelli esterni – avrebbero dovuto farne uno per i direttori generali. Pur di non farlo, hanno bloccato tutto il resto”.

Quel vecchio stipendificio chiamato mamma Regione, dove il posto è assicurato per sempre, rischia di non pagare più dividendi. Nemmeno in tempo di campagna elettorale. In altre fasi storiche, infatti, nessuno dei predecessori di Musumeci si è sognato di dare addosso ai dipendenti. Nello sì, l’ha fatto. Assumendosi la responsabilità e calcolando il rischio. Battendo una strada già molto frequentata: il populismo. Mettere in risalto alcune magane ataviche della pubblica amministrazione, schierandosi dalla parte del popolo (che paga sulla propria pelle lo scotto delle lungaggini) , è strumento di agile e facile consenso. Fra due anni i siciliani potrebbero ricordarsene, specie quelli che hanno fatto file interminabili per concludere una pratica.

Gli scenari passati (la pensione di D’Urso) e future non debbono distrarci dal presente. I sindacati, dopo le accuse di Musumeci, hanno fatto partire una class action per querelarlo. Le ultime settimane di agosto serviranno a raccogliere le firme, mentre a settembre verrà indetta un’assemblea pubblica per celebrare il momento. Nel frattempo, chi c’è andato rientrerà dalle ferie. E molti, non tutti, torneranno in ufficio. Consci di trovare una situazione molto delicata a causa della ripresa dei contagi da Coronavirus. “In Sicilia ci sono nuovi segnali preoccupanti sul Covid – hanno detto qualche giorno fa Giuseppe Badagliacca e Angelo Lo Curto del Siad-Cisal – eppure la Regione è la prima a non far rispettare le regole in casa propria. Il diktat di Musumeci ai dirigenti generali perché rientri il 100 per cento del personale si scontra con la fornitura a macchia di leopardo di mascherine, gel igienizzante, termoscanner e sistemi di prenotazione per il pubblico, per non parlare del distanziamento fra dipendenti che non ovunque viene rispettato. Qui si gioca con la salute di 13mila lavoratori, delle loro famiglie e di tutti i siciliani e, in caso di contagi, dovrà essere chiaro di chi sarà la colpa”.