L’epilogo è già scritto. E anche se il dossier verrà approfondito questa sera in una riunione di esperti in codici e cavilli, da ciò che filtra Antonio Tajani perfino sul decreto Caivano, quello che apre le porte della galera ai quattordicenni, ha deciso di non mordere. Di non piantare grane: Forza Italia, il partito che dovrebbe incarnare l’ala moderata della maggioranza, non presenterà emendamenti correttivi al provvedimento varato giovedì scorso dal governo per inseguire, come dice il fiancheggiatore Matteo Renzi, il “consenso emotivo”, “la pancia” degli italiani: altra delusione per moderati, liberali, garantisti. E, c’è da scommetterci, per Silvio Berlusconi buonanima.

Eppure nel partito fondato dal Cavaliere c’è fermento. Ma a parte Giorgio Mulé che ha avuto l’ardire di protestare (“Il problema dei giovani non si risolve con il carcere. Il decreto è punitivo, alzare le pene per gli adolescenti è una fesseria”), tutti tacciono. Anche il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, che ha fatto del garantismo il suo credo, si allinea: “Il fenomeno delle baby-gang si sta diffondendo in tutto il Paese. Un provvedimento era indispensabile e indifferibile”. Segue timido ma: “Ma bisogna pensare di più all’educazione e all’istruzione dei giovani. Vanno sostenute le famiglie”.

Tanta prudenza, tanta attenzione a non urtare la suscettibilità di Giorgia Meloni che ha voluto “mettere la faccia” sul decreto, stufa di essere scavalcata a destra da Matteo Salvini, non piace ai parlamentari di Forza Italia. Nella chat dei deputati venerdì scorso, nel day after del varo del provvedimento, era un martellare di proteste: “Questa stretta securitaria non ci rappresenta”, “legge e ordine sono lontani dalla nostra storia”. Il più inquieto di tutti, narrano, era il siculo Tommaso Calderone. Poi però, quando viene raggiunto dall’HuffPost al telefono, il deputato nega: “Mi sto occupando di intercettazioni. Non ho giudizi da esprimere: non ho ancora letto bene il testo del decreto Caivano”.

Del resto, il decreto, non l’ha letto neppure Sergio Mattarella: al Quirinale attendono ancora, non senza perplessità, che il provvedimento venga recapitato. Ma, pare, in queste ore il testo viene limato per evitare strafalcioni, come già avvenuto sul decreto anti-rave. Altro magnifico esempio di come Meloni insegua l’emotività degli elettori: c’è il rave e si fa il decreto, c’è la strage di migranti a Cutro e si varano le norme per dare la caccia agli scafisti in “tutto il globo terracqueo”. Su tv e giornali c’è l’agghiacciante resoconto di stupri a ripetizione perpetrati da squadroni di ragazzini e adulti. Ed ecco, appunto, il decreto Caivano.

In tutto questo Tajani abbozza. Ancora domenica scorsa, chiudendo la festa dei giovani forzisti a Gaeta, il vicepremier e ministro degli Esteri, ha inviato i “moderati delusi dal Pd” a votare per lui ora che il riformismo dem “è stato messo sotto i tacchi da quella gruppettara di Elly Schlein”. Ma, oltre agli appelli il leader forzista non riesce ad andare. Tajani tace, se non addirittura asseconda (“non è lesa maestà”), quando Salvini e Meloni attaccano a testa bassa il commissario europeo Paolo Gentiloni. Sta zitto sulla stretta securitaria. L’unico sussulto identitario, l’unica faccia feroce che si concede, è sbarrare le porte a un’eventuale alleanza in Europa con Marine Le Pen, l’amica di Vladimir Putin e di Salvini. Cosa già decisa, per la verità, dal Partito popolare europeo di cui Forza Italia fa parte.

A frenare la già scarsa reattività di Tajani, ormai si sa, è Marina Berlusconi. La figlia del Cavaliere, nel marzo scorso, ha stretto un patto di ferro con Meloni per mettere in sicurezza le aziende di famiglia (a cominciare dal Biscione). E, in cambio, ha ordinato al leader forzista di non rompere le scatole alla premier. Tant’è che Tajani, ligio e allineato, in un primo momento non ha bocciato neppure la tassa sugli extraprofitti delle banche. La prova: un’intervista rilasciata al Corriere della sera il 7 agosto, all’indomani del varo del contestato provvedimento: “Tassare gli extraprofitti? Da mesi diciamo che la Bce sbaglia ad alzare i tassi di interesse e questa è l’inevitabile conseguenza”. Ancora: “Danneggiare le banche italiane? Non è una misura contro di loro, ma un provvedimento a protezione delle famiglie e di tutti quei soggetti che si sono trovati in difficoltà per il pagamento dei mutui”.

Insomma, moscio. Moscissimo. In agosto, però, a dare la sveglia a Tajani è stata proprio Marina Berlusconi. Perché era ed è vero che non bisogna colpire Meloni, ma è altrettanto vero che Meloni non avrebbe dovuto colpire Mediolanum: la banca di famiglia. Così ecco che il giorno dopo il leader forzista diventa il più acerrimo nemico della tassa sugli extraprofitti: “La nostra credibilità è a rischio. Siamo liberali, mica Fratoianni. Mi auguro onestamente che in Consiglio dei ministri una cosa come quella che è avvenuta non accada mai più: è una questione di metodo”. Già, perché Meloni, Giancarlo Giorgetti e Salvini avevano fatto passare la norma senza neppure avvertire il vicepremier.

Forza Italia, insomma, appare come un partito perduto nel nulla. Inconsistente. E non solo per colpa del povero Tajani, che per indole non è esattamente un leone. Gli ultimi mesi, dopo la pax sancita dalla Famiglia con la premier, non c’è stato un dirigente forzista che si sia fatto sentire. Solo Mulè, appunto, ha osato criticare le manette per gli adolescenti. E pensare che con il Pd schiacciato a sinistra, Matteo Renzi sbandato, Carlo Calenda alla disperata ricerca di voti per scavalcare la soglia del 4% alle elezioni europee di giugno, di spazio per gli eredi di Berlusconi ce ne sarebbe. Eccome. Ma l’unico sussulto, la sola idea, è aggrapparsi al padre fondatore: mentre domenica prossima Salvini porta a Pontida Le Pen, Meloni il 25 settembre celebra il primo anno di governo, Tajani porta i forzisti a Paestum. Quando? Il 29 settembre, giorno di nascita del Cavaliere. Perché? “Per preparare il partito alle Europee”. C’è chi si chiede se sarà una seduta spiritica.