Berlusconi e i magistrati: un assedio durato trent’anni

Ma come ha fatto? Per quasi trent’anni ha dovuto fronteggiare una macchina di guerra che non era quella gioiosa e spompata di Achille Occhetto ma quella d’acciaio e fiele messa in piedi da un esercito di magistrati – tutti coraggiosi, tutti valorosi, a tratti persino spocchiosi – che lo hanno accerchiato, assediato, asfissiato. Lui, Silvio Berlusconi, si è difeso con le unghia e coi denti. Non gli sono di certo mancati i soldi né il potere. Ha schierato in campo il fior fiore degli avvocati. Ma se oggi, in un qualche angolo del cielo, qualcuno gli chiedesse di ricostruire le fasi della sua guerra con la giustizia non avrebbe altro modo se non quello di proiettare su uno schermo i numeri e le immagini di un’avventura che ha riguardato solo lui e nessun altro uomo della terra.

I numeri sono da capogiro. Ha subito più di 36 procedimenti. Si sono occupati di lui almeno mille magistrati, disseminati un po’ in tutti i distretti giudiziari: da Milano a Palermo, da Caltanissetta a Firenze, da Siena a Bari. Dentro le aule dei tribunali, delle corti di appello e della Cassazione si sono tenute oltre 2700 udienze. Imputato Berlusconi, alzatevi. Anche le immagini sono da fantascienza. Per contenere fascicoli e faldoni, perizie e verbali, testimonianze e rogatorie non basterebbe lo stadio di San Siro. E non basterebbe un salone del Grand Hotel de Milan per conservare le bobine con le registrazioni delle requisitorie e delle arringhe difensive, tutte con parole di fuoco, pronunciate davanti a giudici che alla fine – e sta qui il grande paradosso – solo in un caso hanno ravvisato le prove necessarie per emettere una sentenza di condanna. E’ successo nel 2013, quando la Cassazione ha messo il sigillo sui quattro anni di carcere, tre dei quali coperti da indulto, per la frode fiscale di 7,3 milioni di euro legata alla compravendita dei diritti tv Mediaset. Condanna che ha costretto Berlusconi a chiedere l’affidamento in prova ai servizi sociali per dieci mesi e mezzo, e a lasciare il seggio del Senato per gli effetti della legge Severino.

Ma diciamolo: il lungo assedio giudiziario non ha mai avuto l’obiettivo di arrivare a condanne definitive. Ai magistrati che lo hanno perseguito per trent’anni interessava di più appendere il Caimano all’albero della gogna; interessava di più sollevare, contro il Cavaliere Nero, il popolo giustizialista: quello che applaudiva i giudici di Tangentopoli e sventolava il cappio della forca; quello che lanciava le monetine all’hotel Raphael contro Bettino Craxi; quello che aveva sete di sangue e di galera; quello dei moralisti e dei perbenisti. Del resto, chi era mai questo Berlusconi? Chi era questo imprenditore rampante che nel ‘94, nel pieno splendore di Mani Pulite, aveva avuto l’ardire di scendere in campo, di sconfiggere la sinistra rassicurante di Achille Occhetto e di sconvolgere gli equilibri del consolidato potere degli apparati che già si preparavano ad occupare gli spazi della vecchia Dc, rasa al suolo dalle inchieste di Antonio Di Pietro e Camillo Davigo, di Gherardo Colombo e Gerardo D’Ambrosio? Chi era quel ricco sfondato che aveva fatto fortuna con i palazzi costruiti sul verde di Milano Due e con le televisioni private, e che ora spadroneggiava a Palazzo Chigi? Certamente un estraneo. Un invasore. Forse un usurpatore. E’ sullo sfondo di queste considerazioni che comincia l’assedio.

Gli storici disattenti fanno risalire il primo ruggito della macchina di guerra al 22 novembre del 1994. Berlusconi si è insediato da pochi mesi a capo del governo e presiede a Napoli un vertice internazionale contro la criminalità. Manco a dirlo, tocca alla procura di Milano sganciare il primo siluro. Il pool di Mani Pulite chiama un cronista di stretta fiducia e affida al Corriere della Sera una indiscrezione esplosiva. Nei confronti del presidente del Consiglio c’è un mandato a comparire: uno di quegli avvisi di garanzia che per il popolo di Tangentopoli già significa manette, carcere di San Vittore, sputtanamento, sentenza di condanna. Lo spunto è dato da una indagine della Guardia di Finanza su presunte irregolarità nell’acquisizione, da parte di Fininvest, di Telepiù. Una questione minima per la quale era già finito ai domiciliari Paolo Berlusconi, fratello del Cav. Ma l’assalto – facciano attenzione gli storici a questo dettaglio – viene preparato con oltre un mese di anticipo. Esattamente il 14 ottobre. E’ il giorno in cui Francesco Saverio Borrelli, procuratore capo e raffinato direttore d’orchestra dei quattro pm dell’apocalisse – quelli che incarceravano e scarceravano, quelli che amministravano confessioni e ordini di cattura – dichiara ai cronisti che l’inchiesta su Telepiù è arrivata a “livelli altissimi”. Era il preavviso. Che aveva esclusivamente come scopo quello di creare, nei giornali e nell’opinione pubblica, una febbrile attesa per la bomba che sarebbe esplosa da lì a poco. Un’esca per il popolo e per le piazze da aizzare contro Berlusconi; contro un Presidente del Consiglio che tre mesi prima, il 14 luglio, aveva avuto la sfrontatezza di spingere il suo ministro della Giustizia, Alfredo Biondi, a emanare un decreto che modificava i tempi massimi della carcerazione preventiva e apriva le porte a 2750 detenuti di cui 350 chiusi a San Vittore per Tangentopoli. Una lesa maestà.

Il popolo e le piazze ovviamente risposero. Il decreto Biondi fu ricoperto di sputi e definito, da quasi tutti i giornali, “salva ladri”. Berlusconi, segnato a dito in diretta tv dai tre pm – Davigo, Colombo e Di Pietro – che si appellavano all’onestà degli italiani, fu costretto a ritirarlo. E a novembre, quando puntualmente esplose la “bomba” del mandato a comparire, l’assedio finì per soffocare il governo: la Lega di Umberto Bossi cominciò a mostrare i primi mal di pancia, il Quirinale di Luigi Scalfaro ci mise i suoi buoni uffici e a Palazzo Chigi si insediò un nuovo esecutivo presieduto da Lamberto Dini. La corazzata di Mani Pulite che, decimando la Dc, aveva consentito a Berlusconi di scendere in campo con Forza Italia, di vincere le elezioni di conquistare Palazzo Chigi, ora lo costringeva a indietreggiare, a subire l’accerchiamento, a ritirarsi dentro i suoi confini, ad asserragliarsi nel castello di Arcore.

Cominciava la guerra di posizione. La procura di Milano apriva nuovi fronti e Berlusconi, che con il governo Dini aveva comunque voce in capitolo, cercava di giocare le sue carte. Filippo Mancuso, nuovo ministro della Giustizia eletto con Forza Italia, tentò, da vecchio garantista, di dargli una mano e mandò gli ispettori a Milano con il preciso mandato di indagare sui metodi e sugli arresti di Tangentopoli: dentro chi non confessa, fuori chi parla e chiama in causa i complici. Ma il gesto di coraggio gli si ribaltò contro: la maggioranza del parlamento, con i progressisti in testa, gli votò una mozione di sfiducia e Mancuso fu costretto a lasciare gli uffici di via Arenula. Siamo nell’ottobre del 1995. E, come si vede, la guerra si estende. Entrano in gioco altri soggetti: i partiti della sinistra, il Csm, la corrente di Magistratura Democratica, sempre attenta agli equilibri della politica. Mentre le procure affinano nuove strategie.

A Milano gonfia il petto Ilda Boccassini, pubblico ministero dei processi Sme, Imi-Sir e Lodo Mondadori. Accomunate da una sigla: “Toghe sporche”. Ilda la Rossa, chiamata così per il colore dei suoi capelli, non attacca frontalmente Berlusconi ma fa di tutto per demolire un uomo chiave del castello di Arcore. Quell’uomo è Cesare Previti, avvocato di affari, Circolo Canottieri, mondano quanto basta, bella barca, amicizie importanti e relazioni sotterranee con Renato Squillante, potente giudice istruttore di Roma, e molti magistrati della sezione civile. Il Cavaliere, anche per ragioni di gratitudine, lo ha fatto prima senatore con Forza Italia e poi lo ha nominato ministro della Difesa. La Boccassini lo accusa di corruzione in atti giudiziari: ha traccheggiato a tutti i livelli anche quelli più oscuri e inconfessabili per vincere facile, soprattutto per aggiudicare a Berlusconi le quote che gli consegnavano la maggioranza del gruppo editoriale Mondadori. Previti ne esce con le ossa rotte, viene addirittura interdetto dalla politica e radiato dall’ordine degli avvocati. Una disfatta. Però Berlusconi si salva: i giudici, compresi quelli della Cassazione, gli riconoscono la corruzione semplice che, prevedendo una pena inferiore rispetto alla corruzione in atti giudiziari, fa scattare la prescrizione prima della condanna definitiva.

Ma non finisce qui. In contemporanea con la Boccassini e la procura di Milano si muove la Palermo di Gian Carlo Caselli, l’alto magistrato venuto da Torino per piegare l’arroganza dei corleonesi di Totò Riina che tra maggio e luglio del 1992 avevano scatenato una stagione di terrore e morte, massacrando due magistrati simbolo della lotta alla mafia: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il bersaglio di Caselli, che con l’incriminazione di Giulio Andreotti ha già cominciato a riscrivere la storia d’Italia, è Marcello Dell’Utri, l’altra colonna portante dell’impero berlusconiano: ha organizzato la pubblicità delle tre reti televisive di Mediaset, ha fondato Forza Italia, occupa un seggio al Senato. Ma ha un punto debole: è palermitano. E a Palermo ha frequentato, prima del suo trasferimento a Milano, uomini vicini a Cosa Nostra e forse anche qualche boss mafioso come Gaetano Cinà. Non solo. Tramite Dell’Utri è arrivato a Milano un palermitano che si chiama Vittorio Mangano: ha un passato di picciotto nella cosca di Stefano Bontade ed è stato chiamato su come stalliere della villa di Arcore: in realtà dovrà tenere lontani i malintenzionati che potrebbero tentare il rapimento di uno dei figli del Cav. Per la procura di Palermo e per i magistrati che indagano sulle stragi, Dell’Utri è l’uomo ideale per aprire una breccia decisiva nell’opaco mondo delle complicità esterne a Cosa Nostra.

L’assedio di Berlusconi entra così in una fase nuova. Altro che i processi di Milano. Altro che Mediatrade e All Iberian. Qui il gioco si fa pesante. Dell’Utri viene rinviato a giudizio per concorso esterno e condannato, con sentenza definitiva, a sette anni di carcere: non solo ha mantenuto rapporti diretti e personali con esponenti di spicco di Cosa Nostra, si legge nel dispositivo, ma ha svolto “una intensa e costante attività di mediazione” tra le cosche e Silvio Berlusconi. E’ il prologo di un’opera che si preannuncia devastante e che prevede l’entrata in scena di un gruppo di magistrati coraggiosi e di personaggi estremamente manovrabili: i pentiti. Uno di questi, Salvatore Cancemi, dice di avere appreso da Raffaele Ganci che Totò Riina aveva deciso di passare dagli omicidi alle stragi dopo avere incontrato “persone importanti”, non affiliate a Cosa Nostra, che avevano un solo interesse: terrorizzare la gente e creare le condizioni per una nuova fase politica; di fatto una alleanza tra gli interessi della mafia e le ambizioni di Forza Italia. Dopo Cangemi interviene Giovanni Brusca, un killer da ottanta omicidi, compreso il bambino sciolto nell’acido, che annusa l’aria e parla dei rapporti tra Berlusconi e Giuseppe Graviano, boss di Brancaccio. Il quale – udite, udite – avrebbe notato al polso dell’ex premier un orologio di 500 milioni.

La procura di Caltanissetta, che si intesta le indagini sugli attentati di Capaci e via D’Amelio, crede di avere gli elementi per andare oltre Caselli e scrive Berlusconi e Dell’Utri nel registro degli indagati per concorso in strage. Si scatenano i giornali, si montano nelle tv i processi paralleli, s’affacciano alla ribalta dei palazzi di giustizia due magistrati tenaci, Luca Tescaroli e Nino Di Matteo. Che con l’archiviazione decisa dal Gip, Giovan Battista Tona, perdono la loro prima battaglia ma non si arrendono. Anzi. Di Matteo, che intanto ha ottenuto il trasferimento da Caltanissetta a Palermo, si intesta come pubblico ministero un’inchiesta istruita dal collega Antonio Ingroia su un patto scellerato tra organi dello Stato e i boss di Cosa Nostra. E’ il processo sulla Trattativa: sul banco degli imputati ci sono padrini del calibro di Totò Riina e Leoluca Bagarella; ci sono due generali del Ros dei carabinieri, Mario Mori e Antonio Subranni; e c’è l’immancabile Marcello Dell’Utri. L’accusa nasce dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, figlio di Don Vito, che fu sindaco di Palermo e boss dei corleonesi, trasformato in quei giorni in un divo dei talk-show. E muove da una certezza: i Ros, pur di fermare la macelleria degli attentati, hanno accettato le condizioni dei mafiosi, prima fra tutte l’eliminazione del carcere duro, il famigerato 41bis. Si va avanti per cinque anni. Fino a quando si scopre che Massimo Ciancimino è un pataccaro. Dell’Utri viene scagionato in appello assieme agli ufficiali dei Ros ma Berlusconi non esce di scena. Perché nel frattempo è arrivato a Firenze, da Caltanissetta, Luca Tescaroli che riprende in mano le indagini sull’attentato dei Georgofili e spedisce un nuovo avviso di garanzia per strage sia all’ex presidente del Consiglio che a Dell’Utri. Dice di avere trovato nuovi documenti e nuovi appigli. Chi vivrà vedrà.

I magistrati coraggiosi sono fatti così. Non abbandonano mai il campo di battaglia. E’ successo pure a Ilda Boccassini. Dopo avere demolito Cesare Previti e le sue toghe sporche, nel 2010 – Berlusconi nel 2008 è tornato a Palazzo Chigi – apre un processo sulle cene eleganti di Arcore: allegria, champagne e belle ragazze. Una tra le tante, Karima El Marough, conosciuta come Ruby, viene fermata e interrogata a Milano perché senza passaporto. Lei parla delle feste e il Cavaliere finisce imputato: corruzione di minorenni. Seguono altri due processi. L’ultimo si è concluso il 15 febbraio scorso. Assoluzione piena.

Si dirà: tutto bene quel che finisce bene. Certo. Ma come ha fatto Berlusconi a sopportare per trent’anni l’assedio di una giustizia così allegra, così volubile e sboccata? Altro che le ragazze di Arcore.

Giuseppe Sottile per Il Foglio :

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