“Le testimonianze raccolte, i dati analizzati, gli approfondimenti svolti da questa Commissione non lasciano dubbi: la disciplina sul sequestro e la confisca dei beni alle mafie pretende, subito, un investimento di volontà politica e di determinazione istituzionale che fino ad ora non c’è stato”. Lo scrive Claudio Fava, presidente della commissione Antimafia, nella relazione sui beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, approvata oggi all’unanimità. Un lavoro imponente, durato 51 sedute e 71 audizioni, che presto verrà tradotto in un impegno preciso per il parlamento regionale e nazionale. Fava, presentando la relazione ai giornalisti, ha evidenziato il rischio che “lo Stato, e con lui l’intera comunità nazionale, perda la sfida lanciata alla mafia da Pio La Torre e Virginio Rognoni con la legge che porta il loro nome: i numeri sono impietosi e parlano di un tasso altissimo di mortalità delle aziende confiscate e una percentuale ancora insufficiente di riuso dei beni immobili confiscati”. In Sicilia, su 780 imprese definitivamente confiscate solo 39 sono attive. Per quanto riguarda quelle “destinate”, solo 11 su 459 non sono state poste in liquidazione.
Una criticità importante riguarda l’Agenzia nazionale dei beni confiscati, che “va ripensata”. “Attendere concorsi che non si svolgono per completare la pianta organica (e nel frattempo, come ci è stato detto, riempirla con funzionari “comandati”, spesso per poter ottenere un trasferimento verso città più gradite) richiama precise responsabilità di governo – spiega la commissione -. Assumere la lotta alle mafie come priorità ma poi continuare a destinare all’Agenzia, che è il motore propulsivo di questa legge, pochi uomini, pochi mezzi, poche professionalità e poca attenzione è una scelta politica miope e incomprensibile. Ritenere che la guida dell’Agenzia debba essere sempre e solo demandata a un prefetto, rinunziando alla possibilità di trovare profili professionali più ritagliati sulle urgenze e gli obiettivi” della stessa, “è una prassi politica inadeguata alle sfide in campo”.
“È miope e incomprensibile non aver lavorato, in questi anni, per costruire un autentico circuito della legalità”, prosegue la commissione. Poi Fava porta un esempio su tutti: “Se ad un’azienda confiscata – che vuole tornare e restare sul mercato con le proprie gambe – il sistema bancario dà un rating di affidabilità bassissimo (mentre era generoso e compiacente quando quell’azienda apparteneva a un mafioso), il problema non sono le norme di legge ma lo spirito del sistema Paese che fatica a considerare il recupero dei beni tolti alle mafie come una sfida di civiltà di tutti”.
Inoltre, “è inconcepibile che ville e casali confiscati definitivamente da lustri siano ancora nella disponibilità dei mafiosi ai quali erano stati tolti, in un imbarazzante rimpallo di responsabilità fra Agenzia, amministratori giudiziari, forze dell’ordine, enti locali e prefetture per attivare le procedure di legge al fine di sgomberare quei beni. È desolante vedere aziende chiudere, terreni agricoli marcire, edifici ridursi in macerie per un difetto di progetti, risorse, buon senso”.
Molte le responsabilità della politica. “La Regione siciliana – si legge nelle conclusioni – dovrebbe svolgere il ruolo di regione capofila a livello nazionale nel dare impulso a iniziative che consentano un miglior riutilizzo dei beni, dal momento che il numero di gran lunga più alto di immobili e aziende confiscate alle mafie riguarda il suo territorio (un terzo del totale a livello nazionale e il doppio della Campania, seconda regione come numero di beni)”. Fin qui, invece, “ha dimostrato di non aver elaborato una strategia all’altezza del suo compito in questa materia, con gravi effetti economici, sociali ed etici sulla collettività siciliana”.
La relazione non si è limitata a un lavoro di ricognizione delle criticità ma ha provato ad immaginare alcune soluzioni da proporre al legislatore nazionale e a quello regionale: dall’istituzione di un Fondo unico di sostegno alla costituzione di un Osservatorio regionale che serva da effettiva cabina di regia, dall’obbligatorietà dei tavoli provinciali permanenti per sostenere le imprese confiscate a interventi concreti sul credito bancario, a una diversa gestione del FUG (fondo unico per la giustizia). “La Commissione si farà carico nei prossimi giorni di approntare un disegno di legge regionale per l’aula e di proporre una legge voto per il Parlamento per intervenire in modo concreto su alcune norme del codice antimafia” conclude il presidente Fava.
La nomina di Montante all’Agenzia dei beni confiscati
Nella complessa vicenda politica e istituzionale dell’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati non può tacersi l’incontro – breve, intenso e sfortunato – fra l’A.N.B.S.C. e il cavaliere Antonello Montante, che occupa alcune pagine della relazione. Montante viene nominato componente del Consiglio Direttivo dell’Agenzia con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri il 1° dicembre 2014. Nelle intenzioni del ministro dell’interno Alfano, la nomina del vicepresidente di Confindustria intendeva rappresentare la definitiva consacrazione dell’impegno di Montante e della sua cordata sul terreno della legalità e della lotta alla mafia; al tempo stesso, quella scelta era il segno tangibile che l’Agenzia intendeva finalmente aprirsi a competenze ed esperienze imprenditoriali per supportare la capacità operativa dello Stato sul terreno accidentato dei beni sequestrati e confiscati.
C’era un solo problema: Montante, appunto.
Nel dicembre 2014, al momento della nomina nel direttivo dell’Agenzia, il dirigente di Confindustria è infatti già indagato (da sei mesi!) dalla Procura di Caltanissetta per concorso esterno in associazione mafiosa. La notizia sarà svelata da un articolo di Attilio Bolzoni e Francesco Viviano nel febbraio successivo, ma la voce su quell’inchiesta e sul suo eccellentissimo indagato corre ormai da mesi tra uffici giudiziari, segreterie romane e redazioni dei giornali. Eppure il ministro Alfano non esita a proporre il nome di Montante: nominato e costretto, nel volgere di pochi mesi, ad autosospendersi dall’Agenzia (febbraio 2015) e poi a dimettersi definitivamente (22 luglio 2015). Vale la pena rileggere alcune pagine che la nostra relazione sul “sistema Montante” dedicò due anni fa a questa vicenda, ascoltando dalla voce degli auditi cosa accadde e perché.
D’AGOSTINO, componente della Commissione. Nel momento in cui si decise di nominarlo all’Agenzia per i beni confiscati, era l’unico nome oppure c’era una rosa di nomi sulla quale si discusse?
ALFANO, ex ministro dell’Interno. Fu un’idea mia, che nasceva dal fatto che nella gestione di questa Agenzia si notava la mancanza di un elemento manageriale. Immaginai di mettere un siciliano, un antimafioso, il responsabile della legalità di Confindustria nazionale e, al tempo stesso, uno di comprovata, a quel tempo, competenza manageriale. (…) Quando lo nomino all’Agenzia nazionale dei beni confiscati, eravamo all’apice. Poi, venti giorni dopo, c’è stata la rivelazione del segreto istruttorio da parte del giornale e se violavano il segreto istruttorio venti giorni prima, io non lo nominavo”.
In realtà, come spiega in Commissione il giornalista di Repubblica Attilio Bolzoni, fu proprio quella nomina di Montante nel consiglio direttivo dell’Agenzia ad accelerare la pubblicazione dell’articolo:
BOLZONI ATTILIO, giornalista. L’articolo del 9 febbraio 2015 ha avuto anche una lunga incubazione, nel senso che noi la notizia l’abbiamo appresa quattro o cinque mesi prima. Non basta, naturalmente, avere la notizia di un signore sotto indagine per scriverla sul mio giornale, almeno io non uso questo sistema. Quindi, lavoro sul territorio, ricostruisco tutti i personaggi di questa rete e decido di pubblicare la notizia insieme al mio direttore quando il Ministro dell’Interno Alfano, su 60 milioni di italiani, sceglie lui all’Agenzia dei beni confiscati. Lì decido che è il momento di pubblicare la notizia.
Resta un dubbio: quando Montante viene chiamato all’Agenzia è già iscritto nel registro degli indagati da sei mesi (l’iscrizione risale al giugno 2014). Notizia che circola già – come ci conferma Bolzoni – nelle redazioni dei giornali. Eppure nessuna informazione sull’indagine penale a carico della persona prescelta arriva né al presidente del Consiglio, cui compete la nomina, né ai ministri dell’Interno e dell’Economia, cui compete l’indicazione. Cosa ha determinato un così paradossale corto circuito informativo, consentendo la nomina ad una carica di così alta responsabilità nel contesto della lotta alla mafia proprio d’una persona che da molti mesi era indagata per concorso esterno in associazione mafiosa?
ALFANO, ex ministro dell’Interno. La mia idea è che vi sia un principio sovraordinato nelle relazioni tra le istituzioni, che è il principio di cooperazione istituzionale. Le do, quindi, perfettamente ragione. Qualcuno avrebbe dovuto dirmelo, avrebbe dovuto dirlo al Presidente del Consiglio, avrebbe dovuto dirlo al Ministro dell’economia. Noi avremmo dovuto saperlo. Ma la legge lo impedisce. E se qualcuno ce l’avesse detto, avrebbe commesso un reato penale.
FAVA, presidente della Commissione Antimafia. Montante si autosospende, con nota protocollata n. 6508, il 25 febbraio del 2015, e si dimette il 22 luglio del 2015, cinque mesi dopo. Com’è possibile che l’autosospensione non sia diventata una revoca? A questa domanda, la risposta del direttore dell’Agenzia dei beni confiscati è stata: ‘Non ho la possibilità né di chiedere, né di proporre, perché la nomina del Consiglio direttivo spetta al Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’Interno. E’ compito loro, eventualmente, intervenire.’
ALFANO, ex ministro dell’Interno. Lui si è autosospeso, perché ha evidentemente immaginato o sperato che la vicenda si determinasse in termini di rapida archiviazione…
FAVA, presidente della Commissione Antimafia. Come mai non siete intervenuti voi?
ALFANO, ex ministro dell’Interno. Sì, sì, ci sto arrivando. Lui immaginava che la vicenda potesse avere una rapida conclusione e, quindi, ha preferito la formula cautelativa di non sedere… credo non abbia mai partecipato neanche ad una seduta o quasi. Comunque, non ha partecipato, di fatto, alla gestione dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati e, alla fine, ha deciso, dopo questi mesi, di dimettersi. Nell’interregno, non si è voluto procedere ad una revoca perché, comunque sia, eravamo di fronte ad un’iscrizione nel registro degli indagati, divulgata da un giornale, non eravamo in presenza dell’arresto.