Altro che un minuto di rumore nelle scuole, qua ci vorrebbero tre giorni di silenzio per tutti. Ma loro – giornalisti, politici, scrittori, cantanti, attori – vanno sparati dove Freud metteva una marcia più bassa, dove Max Weber sostava nella corsia di emergenza. La sorella di Giulia Cecchettin accusa la società maschilista per la morte della sorella uccisa dal fidanzato, ma ecco che un tizio della Lega, un consigliere regionale di Luca Zaia, le risponde dandole della “satanista”, sicché arriva il Pd e pubblica un manifesto in sua difesa: “Giù le mani da Elena Cecchettin”, al che il Giornale risponde dicendo che la ragazza in realtà è pronta a entrare in politica, allora la giurata di “Ballando con le stelle” scende in campo e ribatte su Twitter che è una vergogna, si schiera pure Repubblica (“siamo tutte Elena”), arriva in difesa l’attrice di fiction Rai che tuttavia elogia l’impegno di Elly Schlein e Giorgia Meloni a favore delle donne, epperò ecco che la nota conduttrice rossa con la cofana in testa non è d’accordo, non va bene, anche Meloni è patriarcato perché si fa chiamare “il presidente del Consiglio”… Ecco. Lo pensiamo da tempo, ma adesso ne siamo più che mai certi, la Rivoluzione francese non è servita a nulla. Siamo tuttora una società divisa in stati: ha la supremazia lo stato di ubriachezza. Ieri mattina, per dire, da una rapida scorsa dei giornali, si poteva leggere che Giulia Cecchettin è stata uccisa, nell’ordine: dalla prevalenza del patriarcato, dall’assenza del patriarcato, da tutti gli uomini, dagli uomini progressisti, ma pure dalla musica trap, dai videogiochi, dall’educazione scolastica, dall’educazione famigliare, dai social network e anche un po’ dal pensiero gender fluid. Decine di “esperti” di complessi e liberazioni e frustrazioni e fruizioni da circa quarantott’ore si stanno infatti esibendo sui quotidiani con la penna in mano o intervistati, su Twitter o in televisione. Senza posa.
Tutta gente che non usa mai intercalari come “non so”, oppure “secondo me”, oppure “se non erro” o altri equivalenti che stanno al discorso come panchine ai lati di un lungo viale, rifiatanti e riposanti. La dittatura della certezza. Così una storia tragica viene messa in burletta da un profluvio di scempiaggini tipo la sequela infinita di uomini che da due giorni sentono il bisogno viscerale e un po’ narcisista – ma chi ve l’ha chiesto? – d’intervenire per chiedere scusa. E allora c’è il ministro degli Esteri che chiede perdono a nome di tutti gli uomini della terra, c’è lo scrittore da comodino che spiega come “più sottrai il predominio all’uomo tanto più si sentirà fragile e la fragilità rende spaventosi”, c’è l’allenatore della Nazionale di calcio che ci comunica il suo pensiero a proposito del fatto che “non ne possiamo più di questi codardi travestiti da principi azzurri”, c’è l’ex calciatore che dice “noi uomini siamo tutti da rifare”, c’è l’attore di fiction che circola nell’ovvio come un venditore di bruscolini: “L’amore vero non uccide” (ma va?), c’è pure il cantante rock che sermoneggia, il neomelodico che si prostra e l’ex vincitore di Sanremo che dice banalità tali che basterebbe musicarle e diventerebbero una canzone di successo: “Abbiamo fallito tutti come società”. È semplicemente ridicolo. Basta.