Ballarò. Tra magnificenza e degrado svetta Franco Franchi

Che ci facciano nel primo assolato pomeriggio d’agosto circa 250 palermitani (pochi di più, pochi di meno) in giro per l’Albergheria non è che non sia dato saperlo (c’è l’inaugurazione di cinque nuovi murales con i quali cinque artisti cittadini hanno colorato, abbellito, “risignificato” anonime facciate di palazzi tra quasi ruderi e vecchia edilizia popolare). Piuttosto è meno scontato interpretarlo. La via più facile è quella che il palermitano – vecchio o nuovo che sia – si identifica con Ballarò, il mercato popolare che dell’Albergheria è il cuore più technicolor e stereofonico e che poi dà il nome all’intero quartiere, se impropriamente o meno non importa.

“Ballarò!” pare dica almeno il 75% dei turisti, con occhi avidi e obiettivi di Nikon già spianati, quando arriva in città. Un mantra, una parola chiave, una formula magica. E Ballarò sia. O, più precisamente, l’Albergheria sia. Anche per quella accaldata e sventagliante fiumana di gente che nell’afoso pomeriggio dell’esordio agostano ha sciamato per quasi tre ore, finché s’è fatta sera, per strade, piazze e vicoli all’ombra della “grande minna” (la cupola) del Carmine Maggiore o nei vicoli stretti tra interdetti bassotti affacciati ai balconi tra i panni stesi, tra la magnificenza di un tempo e l’inequivocabile degrado d’oggi.

Ecco, appunto, il degrado. I cinque murales non sono certo la risposta alla “riqualificazione del tessuto urbano”, per dirla in maniera burocratico-pomposa, ma sono una presenza, questo sì, accolta con favore (e partecipazione) dai “ballarioti” che negli ultimi giorni roventi di luglio (dal 21 al 27) hanno coadiuvato gli artisti nella realizzazione delle loro opere. E, oltre che una presenza sono un simbolo, si riempiono di significato, lanciano un segnale, ricordano che la storia, la tradizione, l’identità sono un promemoria importante se si vuole aggiustare il presente perché dia vita ad un futuro quantomeno già funzionante.

E così c’è Franco Franchi che amava Ballarò nonostante fosse “vucciriòto” di formazione: la maschera stralunata dell’attore riprodotta con la tecnica dello stencil da Angelo Crazyone, come fosse pixellata tra una finestrella e una grondaia alla fine di vicolo Gallo mentre Maria Letizia Benenato, sua figlia, guarda con affetto e dice: “Ma adesso un’altra opera la dovete dedicare a Ciccio (Ingrassia) perché loro sono inseparabili, ovunque siano”. C’è il “Vortice di pesci” di Fulvio Di Piazza che si scorge da Porta Sant’Agata sulla fiancata di un condominio popolare anni ’50 tra la via cui la storica porta dà il nome e via della Chiappara: anche questo a segnare, in una visione favolistico-mitologica, una delle vocazioni commerciali più importanti del mercato a pochi passi da lì. C’è il “Colibrì” di Andrea Buglisi su un palazzetto di tre piani di via Luigi Siciliano Villanueva: si libra verso l’alto, in un anelito di cielo, nonostante il macigno che sembra appesantirne il volo. E ancora la maestosa Santa Rosalia di Igor Scalisi Palminteri (che qui aveva già dipinto il co-patrono San Benedetto il Moro che domina in verticale il campetto di calcio in erba sintetica dove giocano i ragazzini) tra via dei Benedettini e via Mongitore (sul retro dell’Ospedale dei Bambini), un murale ai cui piedi, assediata dagli sterpi, c’è una sorta di agorà che è delittuoso non bonificare. E per finire, di vastità in vastità, il grande schermo di cemento bianco dell’ex Arena Tukory (già Odeon prima degli anni ’60) che si riaffolla di volti – non di divi e non in movimento – grazie ad Alessandro Bazan, un’umanità accalcata (tra Guttuso e Grosz) che guarda verso l’alto e addita, in un misto di stupore, allarme, disincanto e speranza insieme: il perfetto contrasto di sentimenti che anima la città.

Non solo per dovere di cronaca ma a Palermo anche come una felice curiosità si dovrà sottolineare che il progetto è finanziato da Elenk’Art, filiazione di Elenka, un’industria di prodotti per pasticcerie e gelaterie il cui patron, Francesco Galvagno, è un appassionato, d’arte e della sua città; che l’ideazione è di Igor Scalisi Palminteri, artista egli stesso ma pure vulcanico aggregatore di colleghi stanziali e di passaggio; che è venuta in aiuto fornendo bidoni di colori la ditta Tommaso Piazza; che il regista Salvo Cuccia ha documentato le assolate giornate di creatività e fatica e ne farà un docufilm; e infine che anche varie associazioni e cooperative del quartiere hanno messo la loro. Come a dire, strano a dirsi, che quasi tutto è possibile.

Totò Rizzo :

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