Non mi affaccio più su Facebook per ragioni mie. Lo faccio oggi per necessità. Perché Maurizio Avola, un signore con ottanta omicidi sulla coscienza, ha tirato in causa i morti e i vivi per raccontare le sue ridicole verità. E qualcuno gli ha perfino creduto.
Avola afferma di aver ammazzato Giuseppe Fava. Dice di aver caricato di esplosivo l’auto bomba di via D’Amelio. Sostiene di essere l’ultimo ad aver visto vivo il giudice Borsellino e di aver dato lui il segnale per far saltare in aria l’auto. Dice di sé, e degli altri compari, un mucchio di strampalate e supponenti falsità che hanno avuto l’onore della cronaca televisiva (ieri sera sulla 7) e la consacrazione letteraria sul libro che gli ha dedicato un giornalista esperto – ma stavolta assai superficiale – come Michele Santoro.
Avola dice che c’era sempre lui, ovunque si dipanasse la storia oscura e vigliacca di Cosa Nostra. A Catania come a Palermo. Lo racconta con ventisette (!) anni di ritardo dall’inizio della sua collaborazione con lo Stato. Lo fa mescolando suggestioni grossolane e presunte inoppugnabili verità. Una per tutte: dietro la morte di Paolo Borsellino c’è solo la mafia, nient’altro che la mafia. Complicità istituzionali? Nessuna! Servizi segreti? Paranoie! Depistaggi? Letteratura giornalistica… Chi era il tipo in giacca e cravatta, notato da Spatuzza e mai visto prima, mentre in un garage palermitano si imbottiva la 126 di esplosivo? Uno sconosciuto mafioso catanese, altro che servizi! Chi ha voluto la morte di Fava? La mafietta locale, che c’entrano i cavalieri!
Avola mente. Grossolanamente. Un rapido e onesto lavoro di verifica giornalistica avrebbe permesso di rendersene conto prima di dedicargli un libro che già nel titolo, “Nient’altro che la verità”, appare come uno sputo in faccia ad ogni verità.
È agli atti dei processi celebrati a Caltanissetta che Avola, nei giorni della strage di via D’Amelio, stava a Catania con un braccio ingessato. Verificarlo era semplice.
È scritto nella sentenza del Borsellino Quater che le auto della scorta di Borsellino arrivarono in via D’Amelio a sirene spente (pag. 127, deposizione della teste Cataldo) mentre Avola racconta che lui era lì, come Achille fieramente in attesa del suo Ettore, e li sentì arrivare “a sirene spiegate”.
È nelle carte del processo Orsa Maggiore la ricostruzione dell’omicidio di Giuseppe Fava, e poco o nulla del racconto di Avola corrisponde a verità (una per tutte: “la redazione dei Siciliani stava al primo piano”: falso, lavoravamo in uno scantinato sotto il livello della strada).
La domanda però è un’altra: chi manda Avola ad avvelenare i pozzi? Chi si vuole servire della sua sgangherata ricostruzione per fabbricare un altro depistaggio su via D’Amelio? Chi continua ad aver paura, trent’anni dopo, di chiunque s’avvicini alla verità su quegli anni e su quei fatti?
E chi li difende questi nostri morti, così strapazzati da mani villane?
(tratto da Facebook)