Oggi Audrey Hepburn avrebbe compiuto novant’anni, e non c’è giornale, sito, rete televisiva mondiale che non la celebri. Perché era bella (nel 2006 un sondaggio mondiale della rivista “New Woman” la incoronò come la donna più bella di tutti i tempi) e soprattutto elegante, di quella grazia irraggiungibile a tantissimi ma non sfacciata, dunque solo ammirevole. Perché era buona (persino in privato, dice chi la conosceva nei lunghi anni del soggiorno romano come moglie del chirurgo Dotti) e impegnata seriamente nel sociale: profuga di famiglia aristocratica olandese, era stata una staffetta partigiana da ragazzina e ambasciatrice dell’Unicef in età adulta, sempre votata agli altri perché, come ricorda un nuovo libro della Sperling&Kupfer che riunisce i suoi aforismi e le sue riflessioni come va molto di moda oggi, “nel diventare più maturo, scoprirai che hai due mani. Una per aiutare te stesso, l’altra per aiutare gli altri”. Non una santa laica, ma qualcosa che vi va molto vicino: la donna ideale. Rispettata dagli uomini e amata dalle altre donne. Insomma, una “icona”, termine che oggi si estende per indicare perfino una borsetta di un qualche successo, ma che in origine indicava un’immagine sacra: la rappresentazione del divino, dal greco bizantino εἰκόνα, originato dal greco classico εἰκών -όνος «immagine». Un emblema, un segno, un modello, secondo l’interpretazione della semiotica: l’astrazione da noi stessi e dalle nostre infinite miserie, ma non così lontana da noi da risultare irraggiungibile. Un modello possibile, l’eternità alla nostra portata e comprensione. Marilyn: l’icona della femminilità. Audrey: l’icona dell’eleganza. Marlon Brando: l’icona della mascolinità. L’equivalente di, il suo sostituto. Al tempo stesso, uno spirito protettore e un modello a cui ispirarsi che, però, non va sostituendo il divino o l’immanente e che non è il frutto della cosiddetta “perdita dei valori”, di cui ogni generazione si lamenta nei confronti dei tempi che sta vivendo e che dev’essere davvero incredibilmente lunga, se si considera che furono gli storici latini a iniziare a indicarla come un male progressivo e inesorabile, o tempora o mores. Anche in secoli decisamente più religiosi e spirituali di questi, in apparenza almeno, schiere di giovani e meno giovani hanno idolatrato attori e cantanti, scrittori e celebrities a vario titolo. Perfino fittizi.
Di un lungo anno di studi su Napoleone I, ricordo nitidamente la sua irritazione con Goethe per quel Werther che, a dire del Primo Console, traviava i giovani, favorendole l’indecisione e la tendenza alla contemplazione oziosa. Ricordo anche i giovani romantici che cercavano di emulare Lord Byron nella dieta ferrea a base di acqua e aceto, più volte alla settimana (bello era bello, il poeta, ma tendeva alla pinguedine, oltre a non poter praticare tutti gli sport che voleva a causa della zoppia congenita): lui stesso, l’idolo delle signore, idolatrava Lucrezia Borgia, e scrisse righe di erotismo vero di fronte alla ciocca dei suoi capelli rosso Tiziano che ebbe occasione di ammirare alla Biblioteca Ambrosiana di Milano dove sono tuttora conservati. Insomma, quelle che oggi giudichiamo “icone” sono sempre esistite e, anche con i mezzi mediatici infinitamente meno potenti rispetto a quelli di oggi, hanno avuto schiere di cosiddetti follower. Delle loro esistenze, si è sempre voluto sapere ogni più insignificante particolare; della loro fisicità, del loro guardaroba, perfino dei loro scarti in migliaia hanno cercato il possesso, inseguendone il valore di feticcio, cioè di oggetto dotato di poteri magici. Nella nostra venerazione del singolo, sacralizzato, torniamo all’origine del mondo, all’epoca pre-religiosa tanto osteggiata dalle religioni codificate che ci ostiniamo a non abbandonare. Al culto comprensibile e innocuo.