Da qualche giorno, nei vicoli e nelle strade che circondano il Teatro Real Santa Cecilia, storica sede del Brass Group, fanno sfoggio di sé alcune foto dell’immensa collezione – ormai ventennale – di Arturo Di Vita, il fotografo del jazz che, per citare un articolo di Luciana Amato, “con il suo occhio attento ama ritrarre la musica e dargli un corpo, convinto che la potenza evocativa della musica sia simile a quella della fotografia, perché in grado entrambe di creare scenari fantastici nell’anima e nella mente”.
Dal 24 giugno al 5 luglio Palermo ospita la seconda edizione del Sicilia Jazz Festival. L’allestimento di Di Vita, in collaborazione con l’architetto Laura Galvano e con Rosanna Minafò, responsabile ufficio stampa del Brass, spadroneggia la vista. Le gigantografie, una novantina circa, fanno capolino sulla città ergendosi come vele; o, in alternativa, si affacciano alle finestre, “dando la sensazione di una jam session realizzata sui prospetti dei palazzi”. “L’anno scorso ho avuto la fortuna di conoscere l’architetto Galvano – spiega Di Vita –: realizzammo un’installazione mista, con strisce dorate e luminose che ricoprivano gli edifici, e le immagini dei grandi del jazz, fotografati da me, che seguivano un fil rouge temporale. Quest’anno l’idea è diversa. Laura, con mia grande gioia, ha spostato l’attenzione sulle mie foto, sposando il concetto di apertura alla cultura, del jazz come linguaggio di libertà”.
Come? “Facendo in modo che queste immagini siano come vele che, al vento, prendono corpo e fanno da tettoia alle strade e ai vicoli che si snodano” lungo l’asse del jazz village. “A questo abbiamo aggiunto che tutte le finestre che danno sul prospetto della strada – sia quelle del teatro che quelle di palazzo Gangi – avessero degli artisti affacciati sulla strada. Questo ha provocato un doppio effetto balconi-tettoia: agli occhi di un passante rappresenta un’installazione coinvolgente e particolarissima. In una città laddove il jazz rappresenta un mercato di nicchia, abbiamo voluto che diventasse l’attore principale”. “Le foto – spiega Arturo Di Vita – sono state scelte seguendo una logica cromatica, in funzione della luce del sole e dei fari che le avrebbero illuminate. Volevamo dare colore, garantire un corretto effetto scenico sotto il profilo delle dimensioni. Essere coerenti coi volti nella parte aerea, e rendere naturale l’affaccio alle finestre. Ci siamo riusciti”.
Non c’è un soggetto che nella lunga carriera del fotografo l’abbia “rapito” più di altri: “Non riuscirei a scegliere un artista né per talento, né per tipologia fotografica, perché il mio intento iniziale – quando ho offerto la mia collaborazione a Ignazio Garsia – era quello di fotografare il jazz come attimo creativo e assolutamente spontaneo. Una fotografia non costruita, ma che sapesse cogliere quelle microespressioni naturali prive di filtri che riuscissero a far arrivare anche il suono. Io speravo che chi guardasse le fotografie percepisse il suono anche se non era stata al concerto, o non aveva visto l’artista. Si è rivelata una carta vincente”.
Nelle foto di Di Vita “l’artista diventa per certi versi immortale. Ci sono fotografie che vanno, parlano, raccontano. Un solo fotogramma può diventare un film. Purché ciò avvenga, il fotografo deve essere bravo a cogliere non l’apparenza, ma l’essenza dell’artista. Ciò è possibile grazie a una stoica pervicacia nel guardare e aspettare l’attimo. Anche per me questi vent’anni sono stati un laboratorio: non lo credevo possibile, ma ha funzionato. Autentiche star come Ron Carter o Dee Dee Bridgewater mi hanno contattato e per me è stato impagabile avere la loro gratitudine e il loro giudizio positivo”.
Di Vita tornerà prossimamente al My Way Festival di Lercara Friddi, che lega il proprio nome a quello di Frank Sinatra, dove la scorsa estate ha allestito la mostra intitolata “Il mio modo di ascoltare la musica”. La sua storia professionale, però, racconta della simbiosi con il Brass Group: “Le mie foto vengono riconosciute come ‘mie’, però si identificano subito col Brass. Il Brass rappresenta i miei occhi, i miei colori, la mia attenzione sul dettaglio. Mi interessa che la foto sia messa a fuoco bene, senza privazioni. Anche i bordi raccontano un’immagine, per questo voglio sempre assicurarmi che nessuno venga ‘tagliato’. Questo, nei dettagli dell’orchestra, permette di avere un impatto simile a quello che si ha dalla platea durante un concerto: la fotografia permette di mettere a fuoco i singoli componenti, senza tralasciarne nessuno”.