Nei prossimi giorni Elly Schlein sarà in Sicilia e potrà constatare direttamente la condizione del suo partito. Per farlo certo non basta una fugace visita, anche perché coloro che la accoglieranno non avranno molta voglia di informarla in modo corretto.
Per avere un quadro compiuto tuttavia sarebbe sufficiente guardare ai risultati elettorali degli ultimi anni, che hanno messo il partito fuori dal potere regionale e dal governo di tutte le grandi città dell’Isola, con l’eccezione di Trapani, un regalo della destra.
Star fuori dal potere potrebbe non essere penalizzante se si fosse capaci di esercitare appieno il ruolo di opposizione, se si riuscisse ad interpretare il profondo malessere della popolazione in tutti i campi dell’economia, dell’occupazione, della qualità dei servizi, se si avesse la determinazione e la voglia di svelare e denunciare le difficoltà di chi governa. Dall’opposizione si potrebbe essere comunque protagonisti della vita politica. Si potrebbe riuscire ad utilizzare le divisioni della maggioranza, si potrebbe diventare il punto di riferimento di quella parte notevole dei cittadini che non si riconoscono nella destra e che comunque hanno bisogno di trovare un interlocutore al quale affidare i problemi e le difficoltà che quotidianamente incontrano.
Il Partito democratico, fuori dal potere, non ha alcuna capacità di realizzare alleanze, del resto oggettivamente difficili per la assenza delle forze intermedie e per la conclamata incapacità dei Cinque stelle ad essere soggetto politico e prima ancora alleato affidabile.
In Assemblea, al di là di alcuni tentativi del presidente del gruppo, il partito risulta spesso assente o irrilevante. L’opposizione la fa, con i metodi sbracati e folkloristici che gli sono propri, prevalentemente De Luca.
Questa situazione, nel suo insieme, consente alla maggioranza di superare la litigiosità e di trovare l’unità, utilizzando naturalmente il potere.
Fuori dalle istituzioni il Partito democratico è pressoché inesistente, non ha nessuna struttura organizzativa, è in mano a gruppi dai quali non viene né una proposta, né un argomento, né una battaglia sui quali mobilitare i propri iscritti, quelli che restano, e sollecitare l’interesse dei cittadini. Il gruppo dirigente appare come rassegnato ad una condizione di marginalità. Sembra avere la certezza di non essere in grado di competere, di non riuscire ad intravedere la prospettiva di un confronto con la destra. Chi entra in campo convinto di non potere puntare alla vittoria è sconfitto ancor prima che inizi la partita. E anziché la speranza di ribaltare i rapporti di forza attuale, i dirigenti del Partito democratico danno la sensazione di mirare a preservare il loro spazio personale. Cercano garanzie in un rapporto sotterraneo e permanente con chi gestisce il potere. Cercano di ottenere qualcosa per mantenere la forza elettorale, che consente a poche persone di preservare il proprio ruolo. Nell’assenza di un progetto che li accomuni, di un’idea che li tenga insieme – e lasciamo da parte valori e quant’altro -, prevalgono l’astio, la diffidenza, l’incapacità di fare squadra.
Non è un quadro a tinte fosche, artificiosamente costruito, semmai è la rappresentazione di una realtà che incide in modo negativo sul rapporto che dovrebbe intercorrere tra maggioranza ed opposizione, sul ruolo che quest’ultima è chiamata a svolgere per il normale andamento della vita democratica.
Io non so se qualcuno dei dirigenti isolani abbia rappresentato a Schlein questa condizione che, del resto, mi pare non sia solo siciliana, anche se qui è particolarmente evidente. Dovrebbe averne lei consapevolezza, mentre sta facendo un buon lavoro che ha consentito al partito di recuperare consensi. Schlein, con talune incertezze, magari frutto di scarsa esperienza, sta tentando di restituirgli un’identità. Lo fa mentre i vecchi capi corrente sembrano ridotti a fantasmi, privati della capacità di ingabbiarla nelle vecchie logiche che hanno soffocato i suoi predecessori. Chi si ricorda di Franceschini, di Guerini, di Orlando, di Zingaretti, di coloro che nel corso degli anni hanno fatto e disfatto un impressionante numero di segretari? Le modalità con le quali Schlein ha scalato la segreteria nazionale, li ha privati di ogni ruolo e li ha probabilmente convinti che dopo di lei non ci sarebbe un altro segretario. Non ci sarebbe il Partito tout court.
Certo la segretaria non può fare da sola. Deve tener conto della pluralità delle culture presenti nel partito. La radicalità necessaria delle posizioni non può diventare radicalismo minoritario ma deve servire a delineare un partito di sinistra riformista, determinato, capace di andare allo scontro anche duro, partendo dalla consapevolezza di dovere svolgere un ruolo insostituibile. I democratici sono chiamati ad attraversare un deserto lungo più di quattro anni e devono preparare con pazienza la possibile lontana rivincita, cercando alleanze ma principalmente riaccendendo il rapporto con quanti non credono più nella politica come strumento utile alla soluzione dei problemi e se ne allontanano.
La ricerca delle alleanze non può comunque ridursi al patetico balletto: “io ti inseguo e tu ti nascondi”, “io voglio costruire una casa comune e tu mi dici che si devono ancora scavare le fondamenta”, “io indico la destra come avversario e tu di fatto scegli me come avversario”.
In questa stucchevole rappresentazione Schlein e Conte sembrano l’opposto dei due simpatici personaggi di Peynet che camminano mano nella mano. A questa “pericolosa” esibizione di intimità i Cinque stelle, come pudiche signorine di altri tempi, si concedono a incontri fugaci, che la gente non comprende e rifiuta. Si conferma così la difficoltà di progettare una comune prospettiva insieme ad un movimento che non ha consistenza, cultura e storia. Se a questo si aggiungono le bizze solipsiste di Calenda e il machiavellismo di Renzi, la prospettiva di costruire un’alternanza alla destra non è alla portata.
E tuttavia bisogna prendere consapevolezza e puntare innanzi tutto a costruire una forza di sinistra riformista insediata a livello centrale e principalmente nelle realtà periferiche. Non si può essere forti a Roma ed evanescenti a Palermo.
Schlein progetta per quest’estate una campagna di militanza.
Mi auguro che riesca a realizzarla anche in Sicilia. Ma ho l’impressione che avrà difficoltà a trovare i “militi” disponibili a seguirla, a stare in piazza, ad incontrare la gente. Chi è abituato a rimanere nelle comodità della fureria, difficilmente ha attitudine per le battaglie politiche che magari potrebbero mettere in discussione ruolo e comodità e sicuramente svelerebbero la fragilità dell’organizzazione.