Alfredo Morvillo, fratello di Francesca, moglie di Giovanni Falcone, sabato non è andato all’aula bunker dell’Ucciardone per commemorare i due magistrati simbolo della lotta alla mafia e intitolare ai loro nomi quel luogo di giustizia. Ha motivato la sua assenza con queste parole: “Non partecipo a manifestazioni in cui ci sono personaggi che non hanno nulla a che fare con i nostri amatissimi giudici”. Il riferimento pesantissimo e brumoso era al sindaco Roberto Lagalla, la cui elezione – secondo Morvillo – si deve al sostegno politico di due condannati per mafia: Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro. Ma dove non c’era Morvillo, con la sua antimafia del risentimento, c’era Maria Falcone, sorella del giudice ucciso trent’anni fa nell’attentato di Capaci. Era, come sempre, in grande spolvero: baci e abbracci con il presidente Sergio Mattarella, anche lui con un fratello vittima del terrore mafioso; baci e abbracci con Pietro Grasso, che fu giudice del maxiprocesso istruito da Falcone e celebrato proprio in quell’aula bunker.
Antimafia contro antimafia. Anche in casa di Paolo Borsellino, il giudice assassinato cinquanta giorni dopo Falcone nella strage di Via D’Amelio. Il fratello Salvatore, un santone dell’antimafia chiodata, si è schierato con Morvillo e ha disertato pure lui la cerimonia dell’aula bunker. Ma il figlio di Paolo, Manfredi era lì a mostrare da uomo delle istituzioni – è commissario di polizia – il rispetto dovuto non solo al Capo dello Stato ma anche alla memoria di tutti quei magistrati che hanno immolato la propria vita nella ricerca della verità e della giustizia. A Morvillo, magistrato ormai in pensione, e a Salvatore Borsellino, quello degli abbracci e baci con il pataccaro Massimo Ciancimino, si è unito oggi – sempre puntuale, non c’è che dire – Leoluca Orlando, il sindaco che per quasi trent’anni ha spadroneggiato su Palermo, trasformandola in sudicio cumulo di macerie. In una intervista al Fatto ha lanciato un grappolo di contumelie contro il suo successore e ha sostenuto che “la mafia non spara più e non governa Palermo, ma la preoccupazione è che possa tornare a formarsi un blocco sociale che porti questa cultura a comportarsi come se comandasse o addirittura a governare”. Una acrobazia intellettuale da “feticcio cariato”, per dirla con Gillo Dorfles.
Come Morvillo anche Nino Di Matteo, che fu pubblico ministero nel lungo processo per la fantomatica Trattativa tra pezzi dello Stato e i boss di Cosa Nostra, ha voluto stare lontano dall’aula dell’Ucciardone. Forse per non contaminare la sua purezza – eroica e straordinaria, ci mancherebbe altro – con personaggi e istituzioni lontani dal suo modo di interpretare la giustizia. Ma la cerimonia era organizzata dall’Associazione nazionale magistrati, della quale Di Matteo è stato un esponente di primo primissimo piano. Eppure il pm più scortato d’Italia non ha lasciato aperto nemmeno uno spiraglio: “E’ da tempo che non partecipo a commemorazioni istituzionali, preferisco confrontarmi sui temi della mafia e della giustizia con i giovani e la gente comune”, ha detto, contrapponendo di fatto la sua assenza alla presenza del ministro Guardasigilli, Carlo Nordio, del vicepresidente del Csm, David Ermini, e dei vertici del Tribunale e della Corte d’Appello di Palermo.
Chi ha reso maggiormente onore a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino? L’antimafia dei risentimenti di Morvillo o l’antimafia populista di Di Matteo? Oppure quella di Mattarella, di Nordio e dell’Associazione magistrati che la sera, al Requiem in memoria di tutte le vittime della mafia, ha elogiato la “sensibilità del sindaco Lagalla” per avere messo a disposizione il Teatro Massimo con un’opera che difficilmente potrà essere dimenticata?