Può la giustizia da un lato decretare, dopo anni di calvario e in maniera definitiva, l’innocenza di una persona, la sua estraneità dall’accusa di essere collusa con la mafia, e dall’altro condannarla a non avere più nulla? Spogliarla dei suoi averi, perché anche se non penalmente collusa, può essere sociologicamente considerata contigua a Cosa Nostra? Può. Perché quando si tratta di mafia alla giustizia penale si associano le misure di prevenzione. Le confische, i sequestri dei beni considerati frutto dell’attività mafiosa, gestiti da un altro tribunale. Quello delle misure di prevenzione, per l’appunto. Sono strumenti che prevede la legge. Non solo, come era in origine, nei confronti dei mafiosi inoppugnabilmente dichiarati tali. Ma anche a volte nei confronti di chi è imbattuto in una storia di mafia, non necessariamente per sua colpa. E il problema è tutto qui, perché spesso non basta un’assoluzione, neanche definitiva, a restituire a chi è stato sotto processo per associazione mafiosa e reati annessi – come il concorso esterno – i propri beni. Anzi, a volte il sequestro arriva dopo l’assoluzione. È il caso dei fratelli Cavalotti, la cui storia è raccontata, tra le tante, da Alessandro Barbano nel suo libro L’Inganno – Antimafia. usi e soprusi dei professionisti del bene, in libreria dal 29 novembre ed edito da Marsilio.
Barbano fa un lavoro meticoloso di ricostruzione dell’altra faccia della legislazione antimafia, una legislazione di emergenza che, come tale, andrebbe usata per poco tempo e per casi limite. In Italia, invece, è stata istituzionalizzata, con conseguenze che vanno ben oltre la lotta alla mafia in senso stretto. E che, soprattutto, sfiorano il muro dell’illiberalità. Abbattendolo, in alcuni casi. Come in quello cui si faceva cenno pocanzi. La storia dei fratelli Cavalotti è la storia di tre imprenditori palermitani, che finiscono in carcere perché in un pizzino di Provenzano è scritto il loro nome: “Bisogna mettere a posto i Cavalotti”, si legge nel bigliettino. Un pentito li accusa, anche se si contraddice quando parla di loro, e i tre finiscono in carcere per anni. Uno di loro subisce anche mesi di isolamento. Assolti in via definitiva dall’accusa di essere collusi con Provenzano e i suoi uomini, anni dopo si vedono sottratti i loro beni. Il perché lo spiega la Corte d’Appello davanti alla quale il provvedimento è impugnato: “Per sanzionare condotte illecite occorre la prova oltre il ragionevole dubbio, mentre per l’applicazione di misure di prevenzione è sufficiente un compendio indiziario sintomatico di appartenenza al sodalizio mafioso” scrive, candidamente, il giudice. Significa che un sospetto, una sommatoria di indizi, possono privare una persona della propria azienda, della propria casa, della propria auto, del proprio denaro. Il tutto alla luce del sole, secondo la legge. Perché il problema, fa notare nelle sue pagine l’autore, è l’aver reso ordinaria una legislazione che, per sua natura, è d’eccezione.
Dell’altra faccia dell’antimafia ci si occupa poco e chi chiude gli occhi davanti alle sue storture, o semplicemente le ignora, non lo fa necessariamente in malafede. Perché, è il retropensiero – giustificabile negli anni delle stragi di mafia, un po’ meno ai giorni nostri – si tratta di una lotta in nome del bene superiore, quale è considerato il contrasto alla mafia. Il rischio, però, è che in nome di una battaglia unanimemente accettata come giusta, si sacrifichino i diritti delle persone. Di persone comuni, che magari sono imbattute nella mafia solo perché costrette a pagare il pizzo o a fornire manovalanza alla cosca. Il confine tra l’essere mafioso e non esserlo, è vero, può essere labile nei contesti dove la criminalità organizzata è largamente diffusa. La linea che separa i soci di Cosa nostra dalle persone costrette, per i più vari motivi, ad entrare in rapporti con la criminalità pur non essendo criminali, può essere invisibile all’occhio di un profano. Ma, fa notare Barbano, il diritto quella linea deve individuarla. Perché, se ciò non accade, il rischio è di sprofondare nella barbarie.
“L’inganno” è un libro che offre spunti, anche scomodi, per riflettere su quali possono essere gli effetti di una legislazione particolarmente rigida che, per sua natura, non riesce a cogliere le sfumature. Lo fa analizzando leggi, provvedimenti dei giudici, e raccontando storie. Come quella che l’autore definisce la Spoon river dei sindaci caduti sotto la scure del concorso esterno in associazione mafiosa, costretti ad anni di processi e poi, quando ormai la carriera era distrutta, riabilitati. Perché, molto semplicemente, innocenti. Succede spesso che gli amministratori vengano ammanettati salvo poi essere scagionati del tutto, dopo anni. Succede in alcune zone più che in altre. Una di queste zone è la Calabria, dove da anni lavora il pm Nicola Gratteri, cui Barbano dedica un intero capitolo. Il titolo, eloquente, è “le inchieste flop del super procuratore”.