La violenza la vediamo ovunque: irruenta, improvvisa, sussultoria. Si è già detto tanto anche sulle “azioni violente”, sull’”agire violento”; sappiamo anche quanto sia bruciante quella violenza del “NON agire”, quella violenza del “non fare” del “non affrontare”. E quanto bruci quel silenzio, quel logorio che consuma, che trova spesso nei rapporti umani di qualsivoglia natura il proprio pasto prelibato.
C’è però un’altra forma di violenza che è talmente sottile che non si avverte subito se non quando i tuoi argini sono già emarginati. E’ la violenza del silenzio. Ancora più odiosa per chi come noi, animali dotati di parola, (alcuni di gran lunga più dotati), prova disagio al cospetto della voragine che si crea fra due interlocutori al momento del silenzio.
Lo colmiamo in ogni modo; c’è chi ha bisogno di dire e commentare qualunque cosa gli capiti a tiro. C’è chi si schiarisce la voce di continuo; c’è chi apre il salvagente del proprio telefono cellulare e trova ristoro. Apnea. I silenzi fra noi ci creano uno stato di apnea. Punto. E se ti chiedi se sei capace di star fermo davanti al tuo interlocutore senza dire nulla, con postura disinvolta e con l’occhio rilassato, provaci. Avrai presto la risposta.
Eppure c’è una forma di silenzio che, almeno per me, è la più alta forma di contorta violenza. Il silenzio fra una parola e l’altra. Quello spazio volontariamente tenuto in sospensione da chi usa l’arma dell’attesa contro di te che stai ascoltando. Lui parla, lentamente, cadenzato come un metronomo; e fra una parola e l’altra mette delle pause talmente spesse da creare quasi un rapporto di sudditanza uditiva, di prostrata attesa della successiva parola. La violenza della subordinazione.
E la parte “bestia”, che in ognuno di noi dimora, vorrebbe scuoterlo, divorarlo, al più alzarsi e andarsene ma, sta lì. Ferma. Annuisce remissiva e consenziente in attesa che “la violenza del silenzio abbia fine… Quando resisti.