In attesa di capire il peso del triumvirato, e soprattutto se l’alleanza (promossa da Forza Italia) si farà, resta la Sicilia. Sola, inconsolabile, sempre più disillusa. Al di là delle frange che fomentano odio e amore per questo o quel personaggio, e di una percentuale sempre più elevata di gente che non va a votare, non si capisce – realmente – chi possa (meglio di Cuffaro, Lombardo e Schifani) rappresentare l’orgoglio e le ambizioni di cinque milioni di persone. Un numero, per altro, sempre più compresso nelle rilevazioni Istat.
Nella marmellata elettorale prossima ventura, tutti i partiti aspirano a guadagnare spazio al centro. Ma in pochi s’interrogano sulla reale consistenza delle alternative, specie nell’area di centrodestra. Meloni è un fenomeno in voga, quasi accecante. Ma alle ultime Regionali, quelle che hanno visto in competizione le liste di Dc e Popolari e Autonomisti, il partito della fiamma è rimasto ben al di sotto della media nazionale. Superando Forza Italia di qualche decimale. Dall’Isola, tranne alcune specifiche realtà (Catania), non s’è mai levato un urlo patriota. Peraltro immotivato, vista la conformazione della Sicilia e il tentativo quasi desolato di raccogliere i cocci dell’autonomia speciale.
In soldoni, quella di Fratelli d’Italia è una marcia senza ali di folla. Quasi solitaria. Gode dell’inerzia dei suoi protagonisti di rango nazionale – cosa vuoi dire alla presidente del Consiglio o a quello del Senato? – del controllo quasi militare dell’assessorato regionale al Turismo (che gode di ampia e capillare copertura romana), ma si infrange su una classe dirigente in fieri, che deve ancora dimostrare di aver costruito un legame forte con il territorio. A parte la solita Catania, dove Trantino ha conquistato a mani basse la carica di sindaco (ma nella provincia etnea la destra è storica e consolidata), nelle altre città capoluogo al voto nella scorsa primavera, è finita con tre sconfitte. E anche abbastanza dolorose: a Trapani il candidato di FdI è stato affossato da alcune scelte di coalizione sciagurate; a Ragusa, la partita non è neanche cominciata. Solo a Siracusa, regno dei Cannata’s, FdI ha mostrato una propria connotazione. Chiara e senza equivoci.
Ma chi è il leader? Sarà la Varchi, attuale deputata nazionale e vicesindaco di Palermo (segni particolari: amica di Giorgia); o forse Gaetano Galvagno, tenuto a freno dal ruolo super partes di presidente dell’Assemblea? Magari nessuno di loro, tanto meno i due coordinatori regionali, assorbiti dalle loro fatiche amministrative (specie Cannella, assessore a Palermo). E allora: chi raccoglie i voti sul territorio? Manlio Messina, ex assessore al Turismo e attuale vicecapogruppo ala Camera, ha guadagnato posizioni di potere a Roma e nei talk, mentre Nello Musumeci, preso per com’è dal ruolo di Ministro della Protezione civile, ha poco spazio per tornare a casa e impressionare con le sue doti oratorie (di contro, Ruggero Razza guadagna terreno sui social). Serve un mastino a presidio del territorio, un Donzelli in salsa sicula. Ma un trascinatore che si dedichi al partito notte e giorno non si vede: ogni trattativa, specie quelle con Schifani, passano da Roma e si rivelano (spesso) vincenti. Ma il credito non può essere illimitato, basta una scintilla e cambia tutto.
Poi c’è la Lega, che di recente ha aggregato un altro deputato regionale: l’ex deluchiano Salvo Geraci, sindaco di Cerda. Tutti gli acquisti, presenti e passati, non sono bastati al Carroccio, mimetizzato sotto le insegne di Prima l’Italia, a ottenere gratificazione sui territori. Tranne a Sammartino, che i catanesi voterebbero anche se aderisse al partito dei pensionati. Gli altri? Al netto di una presenza sparuta nel Palermitano (merito soprattutto dei Figuccia’s) il resto del territorio andrebbe scandagliato con cura. Per spiegare che non è più la Lega di un tempo, e che il suo leader – Matteo Salvini – non è quello del Papeete né quello delle felpe. Ma un leader serio e fattivo, e un ministro attento alle prerogative della Sicilia: l’ultima promessa a suon di miliardi va in quella direzione – una promessa un pochino farlocca per la verità – ma serve altro per riposizionarsi e ottenere successo. Nel 2019, prima che il Capitano abbandonasse Conte dopo l’ennesimo mojito, in Sicilia era arrivato al 20%. Ora faticherà a strappare un seggio a Strasburgo (quattro anni fa ne arrivarono un paio). Perché la Lega, sostanzialmente, in Sicilia è un contenitore e non un partito.
A presidiare l’area di centrodestra, al netto dei soliti noti (Forza Italia) e dell’universo democristiano e autonomista (fatto di poca qualità e tanti cespuglietti), non c’è più nessuno. Potrebbe nascere il partito del sindaco Lagalla, che a Palermo sta dimostrando buona tempra. Il dialogo con Faraone è aperto, anche se un’annessione a Italia Viva, ora come ora, è quanto di più sconveniente. Ci sarebbe Cateno De Luca, che rifiuta a priori qualsiasi forma di guinzaglio. Si candiderà – da solo, pare – alle elezioni suppletive di Monza e Brianza per strappare il seggio che fu di Berlusconi. Le chance sono ridotte al minimo, ma il tentativo, da solo, è la rappresentazione plastica di un personaggio senza regole e tantissimi affiliati. L’antipolitica (sembra di vedere il M5s di un tempo) che alle ultime Regionali, da solo, ha subissato ciò che resta delle opposizioni. Già, ci sarebbe anche il Pd: ma Schlein ha inficiato in malo modo le premesse di partito riformista che nell’ultimo triennio, specie in Sicilia, aveva lasciato credere a qualcosa di diverso. Di più aperto (infatti la Chinnici ha abbandonato la nave appena in tempo. Si candiderà con i più inclusivi di tutti: Forza Italia).