Da un paio di giorni un pubblico ministero sta pronunciando la requisitoria più angosciante che si sia mai sentita in Italia. Oddìo, sentita. Non la sente nessuno, non ne sa niente nessuno, a meno che non si sintonizzi su Radio radicale, che ne dà conto perché solo Radio radicale fa servizio pubblico (ricordate la bella idea dei grillini di levarle i fondi statali?).

Il pm si chiama Stefano Luciani, il tribunale è quello di Caltanissetta, il processo è sul “più colossale depistaggio della storia giudiziaria italiana”: gli ergastoli rifilati per la strage di via D’Amelio – Paolo Borsellino e la sua scorta – a gente innocente sulla base di dichiarazioni di un falso pentito (Vincenzo Scarantino), individuato, torturato, istruito dalla polizia, infine creduto – diciamo così – dalle procure e dai giudici. Questo racconta Luciani, e questo racconta da anni Fiammetta, la figlia di Borsellino. Io ogni tanto torno qui, con questa storia, sebbene mi paia proprio di annoiarvi. E succederà ancora.

Perché il pm si è scusato – dovremmo scusarci tutti – di una requisitoria non all’altezza «di un processo di questa portata», dove gli imputati sono tre poliziotti, e una specie di omertà istituzionale impedisce di sapere chi li abbia incaricati e attrezzati, probabilmente anche dentro i palazzi di giustizia. Le più alte corresponsabilità della morte di Borsellino – altro che quella boiata della trattativa Stato mafia – sono coperte e ignote da anni, salvo poi versare la lacrimuccia coccodrillesca a ogni ricorrenza. Una roba degna della Russia di Putin. E noi, che non ce ne curiamo, siamo già degni sudditi del putinismo.