Un quarto di secolo: c’era voluto tanto per arrivare all’agognata stabilizzazione dei lavoratori Asu, uno di quegli immensi bacini di precariato che la Regione ha creato e, nel tempo, non è più riuscita (economicamente) a mantenere. E’ bastato molto meno, un mese e mezzo circa, perché l’entusiasmo si trasformasse nell’ennesima beffa e il Consiglio dei Ministri impugnasse l’articolo 46 dell’ultima Legge di Stabilità regionale, che aveva permesso a 4.571 lavoratori – pur fra mille patemi – di aprire uno spiraglio sul futuro. Quattordici ore settimanali che non avrebbero garantito la corretta funzionalità degli enti locali, specie i Comuni, dove questa gente lavora; ma che avrebbe permesso ai diretti interessati di poter riprogrammare la propria vita sulla base di entrate certe. Oltre ai 39,4 milioni di euro già stanziati, come negli anni precedenti, per il pagamento del sussidio, il governo regionale aveva aggiunto ulteriori 10 milioni di euro per il 2021, che sarebbero diventati 54 milioni di euro per il 2022 e altri 54 per il 2023.
E invece no. Comincia oggi una nuova trafila, che porterà (probabilmente) la Regione a una trattativa incessante col governo Draghi e, in secondo luogo, a resistere di fronte alla Corte Costituzionale, sperando nel miracolo. Ma i precedenti non aiutano. Ne è testimonianza la vicenda degli ex Pip, altri precari storici: autorizzati a confluire in Resais da una legge dell’Assemblea, il percorso fu stoppato prima dal Consiglio dei Ministri, e poi dalla Consulta, che nell’agosto 2020 dichiarò l’illegittimità dell’articolo 64 della Finanziaria 2018 che prevedeva “il transito dei soggetti indicati con contratto a tempo indeterminato anche parziale presso la Resais”. Nel complesso, l’ultima Finanziaria approvata dall’Ars avrebbe violato diversi principi costituzionali: innanzi tutto l’articolo 3, sulla parità di trattamento dei lavoratori; l’art. 81 sul pareggio di bilancio e l’art.97 sulle parità d’accesso al pubblico impiego; ma soprattutto due lettere, la e) e la f), del comma 2 dell’articolo 117 (quello sul conflitto di competenze con lo Stato), relative alla copertura finanziaria e alla stabilizzazione del personale.
In attesa di poter leggere le motivazioni, l’assessore Armao – lavandosene le mani – ha messo sul banco degli imputati l’Ars, asserendo che il 90% delle norme impugnate da Roma, sono di “natura parlamentare”. E’ un modo come un altro per dire ‘io la mia partita l’ho vinta’. E poco importa se la battaglia dell’Asu era la battaglia di tutti: a partire da Musumeci, che aveva parlato di “un atto di grande responsabilità”, ribadendo il merito “di governo e parlamento”; o di Antonio Scavone, collega di Armao, che aveva parlato più espressamente di “una pagina del precariato storico” che “si chiude”, di una “soluzione definitiva al problema drammatico di persone che da 25 anni vivevano nel precariato” e che adesso” recuperano la loro dignità, la libertà, una serenità vera”. I primi segnali negativi erano giunti dal Mef nei giorni scorsi: il ragioniere generale dello Stato, infatti, aveva espresso delle perplessità relativamente alla norma sugli Asu, suggerendone l’impugnativa a Chigi.
E a nulla è valso il tentativo di Scavone di salvare capre e cavoli presentando delle tempestive controdeduzioni: “Chiederemo che il governo nazionale autorizzi la deroga al decreto legislativo 118/2011 – aveva affermato l’assessore qualche giorno fa -, nella considerazione che la Regione intende sostenere le necessità finanziarie della misura oltre l’intervallo temporale legato al decreto. Questo consentirebbe la storicizzazione della spesa, così come avvenuto per la stabilizzazione dei precari degli enti locali. Si tratta – conclude – di 4.571 risorse umane e professionali che da venti anni sono impiegate all’interno della pubblica amministrazione e in molti casi indispensabili al normale funzionamento degli enti locali. Il principio normativo votato dall’Ars risponde pienamente a una stessa norma adottata a livello nazionale nel 2020 e, soprattutto, aderisce a uno specifico rilievo comunitario che contesta allo Stato italiano il ricorso generalizzato al precariato nella pubblica amministrazione”. Una pubblica amministrazione che in Sicilia, per molti versi, resta paralizzata: basti pensare che la Regione non bandisce un concorso pubblico dal 1991, e tutti i 13 mila dipendenti, nelle prossime settimane, dovranno aderire a un percorso di formazione deliberato dalla giunta e annunciato da Musumeci di fronte ai giudici della Corte dei Conti.
Tornando agli Asu, però, il dispiacere è doppio: viene meno, infatti, un bacino numericamente succulento. Che aveva ritrovato per un attimo fiducia nella politica, suscitando l’appetito dei partiti, ma che adesso rischia di sprofondare nuovamente nell’elettorato passivo, fuori dalla ragnatela di ‘clientele’ che rappresentano l’humus della politica siciliana. Al netto di questo ragionamento, restano le persone. E mentre Scavone si limita a un comunicato rabbioso, in cui spiega che “non mi sarei mai aspettato un epilogo del genere, è uno schiaffo ai lavoratori e alle loro famiglie”, i sindacati sono pronti a battersi, ma con un filo di rassegnazione in corpo: “La norma non ha passato il vaglio di Roma – dicono i segretari regionali di Fp Cgil, Cisl Fp e UilTemp, Gaetano Agliozzo, Paolo Montera e Danilo Borrelli -. Tutto ciò non è altro che la conseguenza di un rapporto politico-tecnico labile, se non inesistente, tra Governo regionale e Governo nazionale. E questo non è più ammissibile perché ci sono norme, delicate e complesse per il loro contenuto, che vanno accompagnate passo dopo passo fino a poter dispiegare i loro effetti”. Armao, da par suo, ha lodato la collaborazione con Maria Stella Gelmini, Ministro degli Affari regionali e membro ‘influente’ del suo stesso partito (Forza Italia); segno che l’angolo d’osservazione non coincide.
“Adesso – vanno avanti Agliozzo, Montera e Borrelli – occorre rimediare, e al più presto, per chiudere questa terribile pagina di precariato tutto siciliano che interessa 4.571 lavoratori che per 595 euro al mese circa, hanno tenuto in vita uffici, musei, aree archeologiche e che da anni ormai portano avanti, con grande senso di responsabilità, ruoli e mansioni importanti ma che non gli sono riconosciuti. Per questo serve grande coesione e il sostegno di tutte le forze politiche, a livello nazionale e regionale”. “A questo punto – rilanciano Giuseppe Badagliacca, Clara Crocè e Gianluca Cannella del sindacato Csa-Cisal – è necessario convocare subito il tavolo permanente al quale porteremo tre proposte: strutturalità del finanziamento fino al 2038, trasformazione dei contratti a tempo indeterminato almeno per le stesse ore attuali, aumento complessivo della dote finanziaria per la fuoriuscita incentivata ma senza paletti di alcun tipo. I lavoratori sono stanchi dei rimpalli e dei rinvii, hanno diritto ad avere risposte concrete e pertanto, in attesa della convocazione del tavolo, si conferma lo stato di agitazione”. Il Pd ribadisce la necessità, per il governo, di ascoltare “la richiesta delle organizzazioni sindacali partecipando alla seduta della Commissione lavoro dell’Ars per definire e condividere la strategia da mettere in campo”. Ma anche “di incrementare la copertura finanziaria prevista per la stabilizzazione nel rispetto delle previsioni costituzionali”.
Previsioni che fin qui sono state violate, e hanno contribuito a determinare l’ennesima delusione di questa legislatura che sotto il profilo delle impugnative rappresenta per l’Isola uno shock. Anche la Corte dei Conti, nel corso del giudizio di parifica dell’altro giorno, ha evidenziato come 9 delle 26 leggi promulgate in Gazzetta ufficiale nel 2019, siano state impugnate dallo Stato. Un triste primato dovuto, più che altro, a un fattore dirimente: l’assenza di coperture certe. La Regione, che ha le casse dissanguate, utilizza spesso la tecnica legislativa del rinvio a risorse ancora da stanziare, e quindi inesistenti. Un magheggio che non paga più.