Come accadeva per le figurine dei calciatori, il Michele Perriera giornalista era quasi introvabile. Tutti gli altri diffusissimi, con doppioni e varianti: l’intellettuale in primis che compendiava il drammaturgo, il romanziere, il saggista, l’osservatore, il polemista. Il giornalista era rimasto quasi defilato, nonostante lavoro e pezzi scritti su «L’Ora» fossero stati gran parte della sua vita. Giornalista sui generis, certo, nelle nicotiniche e ticchettanti stanze di piazzetta Napoli. Adesso la lacuna documentaria viene colmata con «Michele Perriera. Uno scrittore in redazione. Articoli, cronache, critiche, commenti di vita culturale – “L’Ora” 1961-1992» (Sellerio): presentazione stasera 27 alle 20 all’Orto Botanico per «Una Marina di libri».
Gran fatica per Gianfranco e Giuditta Perriera, i figli, e per Piero Violante, amico, sodale, intellettuale di ormai irrintracciabili lucidità e memoria nonché collega di Michele in quegli anni ruggenti del quotidiano del pomeriggio.
«Papà ha avuto una produzione pubblicistica enorme, purtroppo era disordinatissimo – racconta Giuditta –, faceva gran confusione tra le innumerevoli stesure dei suoi scritti, noi a casa avevano una sorta di emeroteca coraggiosamente gestita da mamma dalla quale è poi sortito il materiale per la mostra sui suoi articoli allestita alcuni anni fa alla Biblioteca Regionale. Adesso gran parte della sua produzione – fogli spesso scritti a penna, manifesti, fotografie stipati dentro scatoloni – ha trovato ospitalità da padre Nino Fasullo. Però era giusto che quello su cui aveva lavorato per il giornale fosse sistemato per cronologia e temi e pubblicato in un volume».
Che tipo di giornalista fosse, Giuditta lo spiega, dopo averlo riletto a distanza di tanti anni e con la maturità di oggi, così: «Particolare, non aveva certo il taglio del giornalismo classico, anche nelle cronache della città, nelle interviste. C’era sempre una visione che andava oltre lo stesso sguardo. Quello che mi colpisce è che lui non abbia trascurato nessun aspetto di Palermo, li abbia raccontati e analizzati tutti, dalla politica al sociale, alla cultura osservando oltre ai fatti il contesto, le persone, il tempo».
«Era come se cercasse sempre – puntualizza Gianfranco – qualcosa di universale nei particolari. Certo, il giornale lo costringeva a misurarsi con la durezza del reale, con una leggibilità del racconto che arrivasse a ogni lettore e lo ingabbiava, com’era naturale che fosse, nelle misure, nel numero di righe, al taglio magari richiesto dal direttore. Ma, alla fine, anche quelle colonne di piombo gli erano consone perché non si limitava alla interpretazione immediata, alla contingenza del vero».
Il ricordo affettivo è quello di un padre che scrive nel suo studio, una sorta di Sancta Sanctorum quasi inviolabile, o che rincasa nottetempo perché quando faceva la critica teatrale dopo la “prima” correva a scrivere in redazione affinché fosse tutto pronto per l’alba successiva quando il giornale del pomeriggio cominciava ad essere composto. «Quando gli fu affidato l’inserto culturale, lui, da disordinato che era, diventò ordinatissimo: temi e argomenti da sottoporre ai collaboratori, numeri di telefono da chiamare, gli articoli spesso portati a casa per eventuali riletture e correzioni. A un certo punto – non credevamo ai nostri occhi – sulla sua scrivania spuntò anche un’agenda. Mai avuta una in vita sua».
Questo Perriera quasi inedito – interrogativo da porre con una certa discrezione – questo scrittore in redazione, serve a dare una visione diversa dell’intellettuale tout court per la quale Perriera è stato spesso visto in maniera troppo seriosa rispetto al vero?
Giuditta: «Serve forse a scoprire una disposizione più lieve ma non per questo meno profonda nei confronti di quello che raccontava per il lettore. Questa stimmate dell’intellettuale ha pesato in una città che gli intellettuali li ha sempre guardati con diffidenza perché considerati scomodi. Lui lo è stato fino all’ultimo, lo era già con questi articoli». Gianfranco: «Rivendico e difendo l’essere intellettuale, lui lo era e non so se abbia pagato o meno l’esserlo. La sua scrittura non aveva però la vocazione di essere radicata nel luogo, come ho detto era universale. Ma nonostante questo, credo che qui sia stato amato. Ha scontato semmai un pregiudizio, quello di essere considerato “difficile”, sulla pagina e sulla scena. Pregiudizio, per l’appunto, perché in realtà era di una limpidezza a volte disarmante».